beggars and choosers


- E tutto questo è per un'indagine?
- Sì, come le ho detto...
- E' che di solito vengono dei semplici agenti, non la...
- Erano tutti occupati. Questi file, quindi?
- Ho settantadue risultati, direttrice King. Deve darmi qualche riferimento più preciso, purtroppo abbiamo molti minori con malattie terminali ricoverati.
- Okay, okay... minori di sedici anni, allora.
- D'accordo... cinquantacinque risultati. 
- Okay... cui un trapianto non salverebbe la vita? Terminali senza... possibilità di ripresa.
- D'accordo... rimaniamo ancora intorno ai trentacinque nomi, vuole che le stampi la lista?
- No. Mi trovi quelli con le peggiore assicurazioni sanitarie.
- Scusi?
- Sì, quelli che riescono a stento a pagarsi le cure.
- Ce... ce ne sono sei con le peggiori assicurazioni sanitarie. 
- Quanti afroamericani? 
- Quanti afroamericani?
- Quanti afroamericani.
- Due, direttrice. Jayden Lewis, dodici anni, leucemia, mutante. E Makayla Jones, quindici anni, osteosarcoma.
- E cos'è? L'ultima cosa che ha detto.
- L'osteosarcoma? Un tumore delle ossa molto aggressivo... temo di non poterle dire altro, a meno che non abbia un mandato...
- La stanza in cui si trova può dirmela?
- Di Makayla o di Jayden?
- Di... entrambi. Entrambi.

- - -

Di fronte alla stanza di Makayla Jones c'era un uomo sui quarant'anni che ha deciso di andare a prendersi l'ennesimo caffè per combattere la stanchezza. Rebecca si affaccia sull'uscio e osserva il profilo di una ragazzina giovane, che non somiglia a nessuno che conosce. Vorrebbe svegliarla e farle tutte le domande che ha preparato. Come va a scuola? Cosa vuole fare da grande? In cosa crede? Cosa farebbe con un'altra possibilità? Invece si risolve tutto in un sorriso sfuggente quando le raggiunge il viso e le vede il sottilissimo strato di capelli che le copre il cranio. Tinto di blu.

Makayla apre gli occhi molto piano, percependo una presenza accanto al letto. 

- Chi sei?

Rebecca sospira a fondo e scrolla le spalle.

- Oggi un'amica. Sai mantenere un segreto?

Makayla promette di sì.

out of key


New Orleans, Louisiana
ore 02.23 A.M.

Casa di Garrika King non è grande né piccola. E' esattamente della grandezza che viene assegnata a nuclei familiari di quattro persone lì a Magnolia. E' più grande di quella in cui sono stati a Philadelphia, a Panama Street, questo è certo, ma Garrika avrebbe preferito rimanere a nord, lontana da New Orleans. Andre ha insistito per riportarli in Louisiana, hanno fatto le valigie e traslocato di nuovo nel giro di quarantotto ore. Adesso i suoi figli - una bambina riflessiva e un adolescente ruspante - dormono entrambi nella loro stanza. Lei aspetta sullo stretto divano in soggiorno, tra le dita uno smartphone di vecchia generazione che replica all'infinito le immagini di un ampio velivolo che si schianta contro un mostro grande come un palazzo, spingendolo in avanti in un portale in cui sparisce. E il velivolo con lui. Philadelphia.

Sente la chiave di Andre graffiare la porta, sbattere almeno quattro volte prima di trovare la sua strada nella serratura. Si asciuga il viso e si alza in piedi. Quando suo marito barcolla all'interno, trascinando i piedi e rischiando di inciampare più di una volta in tre metri, lei deglutisce il nodo che le stringe la gola e si sforza di non rovesciargli addosso tutta la sua delusione, come fa sempre. Andre, che non si aspetta di vederla sveglia, tende un sorriso che muove solo le labbra, lasciando gli occhi appannati. "Sei proprio la più bella delle stronze quando m'aspetti sulla porta, ah, Gar Gar?", farfuglia mentre si appoggia al divano e poi ci si schianta. Garrika si asciuga gli occhi per la seconda volta.

"Ha chiamato tua madre due ore fa."
"A-ah? Mi prendi un bel bicchiere d'acqua, mi fai il favore?"
"Si tratta di tua sorella."
"Di nuovo, ah-- da mangiare? Me l'hai lasciato qualcosa per cena? Sto morendo di fame."
"Andre."

Andre. La voce di Garrika si spezza su quelle due sillabe in maniera più chiara, Andre drizza le antenne e oscilla occhi opachi su di lei. Da qualche parte sul retro del suo cervello suona, flebile, la sirena di un allarme mormorato. Tiene la bocca aperte, il corpo abbandonato sul divano, le pupille tutte tirate a destra, su Garrika. Il capo non lo volta, quello no: sa che è meglio tenerlo defilato se non si vogliono prendere i pugni sul naso.

"Ha chiamato per tutta la sera dicendo che aveva avuto un incubo dei suoi, era agitata, Roe è andata da lei. Poi due ore fa l'ha chiamata Lucas Black, ed è tua sorella, Andre..."
"Cosa è successo?"
"Non lo so. E' scomparsa. Era assegnata a una missione e... in tv continuano a mandare il video: un aereo che si schianta contro un mostro di dieci metri e poi scompare assieme a lui. Lucas Black dice che quell'aereo lo pilotava lei."

Sotto qualsiasi cosa stia Andre King, non gli impedisce di capire, ma gli toglie tutto il peso della consapevolezza. Sprofonda nel divano senza dire niente, le pupille tornano per inerzia di fronte a sé, prive di messa a fuoco. Boccheggia a vuoto un paio di volte, mentre sua moglie rimane in piedi di fronte a lui, esasperata dalla sua immobilità.

"Andre, mi hai sentito? Rebecca è dispersa. Rebecca è morta. Di' qualcosa."

Lui scuote il capo molto piano. Si sfiora con le dita i tatuaggi con i nomi dei suoi due fratelli: glieli ha disegnati sulla pelle sua sorella, e lui ha tatuato gli stessi nomi su di lei.

"Ho solo due polsi", mormora. sembra quasi distratto. "Ho solo due polsi, e nessuno di loro avrebbe mai dovuto lasciare New Orleans."

* * *

Tyonda King si è premuta una mano sulla bocca mentre sua madre la raccoglieva tra braccia solide. Lucas Black, dall'altro capo della linea, esitava nel dirle che avrebbe voluto sapere come si fa a pregare. Tyonda scuoteva il capo e si impediva di piangere. "Devi riportarla a New Orleans, Lucas Black" gli dice, con un tono più deciso di quello che ci si potrebbe mai aspettare. "Tutta questa follia non ha più un senso. Devi trovarla. E una volta trovata, devi riportarla a New Orleans."



I believe in your victory

Nell'esercito lo chiamano normalmente Trigger. Si tratta di una tecnica che consiste nel visualizzare con estrema vividezza l'immagine della cosa che si ritiene più importante al mondo. Riabbracciare i propri figli o prendersi cura dei genitori malati sono esempi tra i più comuni, ma possono variare di molto: l'importante è che l'immagine sia ragionata nei minimi dettagli e che venga richiamata in momenti di grande difficoltà che rischierebbero di paralizzare anche il meglio addestrato dei soldati. Attraverso l'utilizzo di questa tecnica, è possibile trovare il coraggio e la decisione per affrontare qualsiasi ostacolo si affronti sul campo.

Ogni corpo dell'esercito consente ai suoi soldati di scegliersi il proprio Trigger, ma non le Special Forces. Le Special Forces insegnano a costruirsi un Trigger nuovo di missione in missione, e consentono di usarne solo uno: il successo dell'azione svolta. Poiché lasciare spazio a Trigger personali legati alla propria sopravvivenza rischierebbe di condizionare il conseguimento degli ordini dati, adesso addestrano i propri uomini a visualizzare il raggiungimento dello scopo della propria missione come fine ultimo. Molti disertano: continuano a pensare alle loro mogli, ai loro figli, ai loro genitori. Ma non Rebecca. 

Rebecca ha seguito pedissequamente gli ordini e ha sempre e solo usato come Trigger il completamento della missione. Una volta lasciate le Special Forces, ha lottato per strapparsi dal centro del cervello quell'abitudine. Ha provato a sostituirla con altre cose: presentarsi a New Orleans sana e salva, vedere tutti i suoi nipoti diplomarsi e, per un po', addirittura sposare Lucas Black. Ma nessuno è riuscito a trovarle addosso la stessa presa che ha su di lei la lineare semplicità del perseguimento dell'obiettivo. Quando è in pericolo, l'unica cosa che le permette di non paralizzarsi e di andare avanti è quella: la visualizzazione della vittoria. Ed è l'anelito alla vittoria che utilizza per avere il coraggio di spingersi contro Baal in un robusto velivolo di cui è alla guida e spingerlo in avanti verso il portale che conduce a un'altra dimensione. Mentre viene inghiottita dal nulla, e scompare dalla faccia di questo mondo, non sta pensando a nient'altro: non alla sua famiglia, non a Lucas, non ai suoi colleghi né ai suoi pochi amici. Solo all'obiettivo: Philadelphia liberata dall'incombente minaccia di un Dio. Forse perché sa che, se così non fosse, non avrebbe vinto mai niente nella sua vita. Ed è stata una bella vita.

* * *

"Se incontri un Buddha, uccidilo."

Marcus Dansi

a losing game



[...] Ma non partiamo dagli stessi presupposti, no? «Si sporge appena in avanti, d'istinto.» Per me è successo che un mio presunto amico ha sparato senza motivo al mio fidanzato, non degnandosi poi di cercarmi nemmeno mezza volta in un mese. «Arriccia le labbra in una smorfia accennata, che sostituisce senza troppo trasporto una scrollata di spalle.» Per te è lavoro.

* * *

New Orleans, 2020

Sente la terra smossa dietro la nuca. Il cielo limpido le pesa sul petto come le peserebbero esattamente quindici metri cubi di suolo. L'ultima cosa che si sono detti, lei e Jamal, è stata buona fortuna. Infila le dita nel terreno, fin dove arriva. Cerca di farsi albero, piantare le radici, lasciarsi crescere addosso il muschio d'inverno, venire riassorbita fino al cuore della terra. Ma è solo un fazzoletto verde in una scatola di cemento crepato. Si bussa contro il petto per essere sicura di averci ancora qualcosa dentro. Chiude gli occhi e le sembra di sentirne l'eco, e pensa che quello sia il dolore più grande al mondo, ignorando che di peggiore di perdere un fratello esista soltanto perderne due. E che le sue ossa sono in grado di assorbire entrambi i colpi.

* * *

«[...] Si passa la lingua tra le labbra, le sopracciglia si sollevano per un secondo solo alle sue ultime parole, come tirate da due ami fragili. Alza gli occhi su di lei. Si passa la punta della lingua contro il palato, esita visibilmente. Ma qualsiasi cosa volesse dire, non la dice. Invece sospira, scuote leggermente il capo, fa scivolare gli occhi di latogià. Per me è lavoro.

in my cold arms


C'è una casa indipendente a due piani in un posto che si chiama Appleby Street, Old City, Philadelphia. Ha quattro mura solide e due insegne: una dice Walsh e l'altra dice Black/King, ma la seconda è provvisoria, scritta a pennarello, la prima invece è in ottone. Ha finestre alte e tende pesanti, le pareti candide non hanno mai visto scarabocchi di bambini o manate di adolescenti. C'è una casa a due piani al quarantatré di Appleby Street, in un quartiere pulito, ha anche un garage che un tempo era pieno di tutte le cose che Rebecca ha voluto metterci dentro (moto, macchine) e adesso, quando ci entra con una chiave che avrebbe dovuto restituire, c'è una casa a due piani che odora di polvere e di vuoto ancora prima che accenda la luce. Tasta con le dita l'intonaco finché non trova l'interruttore. La luce era così debole, quando se ne è andata? Cosa sarebbe mai potuto cambiare in due settimane?

C'è una bella casa adeguata alla media borghesia ad Appleby Street e Rebecca ci ha vissuto, per un po'. Ora che ci cammina dentro le sembra di nuovo estranea, come la prima volta in cui ci entrò. Ogni passo lo fa vicino alle pareti, cautamente, ogni cosa che incontra la tocca per ricordarne la consistenza. Con i polpastrelli traccia disegni nella polvere. Qui c'è il camino, qui il divano, qui il tavolo che non usavamo mai, qui la cucina. Qui il corrimano in legno di ciliegio, qui uno dei tre bagni, qui lo studio, qui la nostra camera da letto. Poggia la fronte sulla porta chiusa, bussa piano. Preme l'orecchio contro il legno senza sentire niente. Allora la spalanca, all'improvviso.

C'è una splendida casa ad Appleby Street, ha quattro mura solide, due insegne, una stanza da letto vuota. Rebecca accende la luce, indugia a guardare la finestra perché non vuole vedere cosa c'è sul letto, e dietro i denti prega di non trovare ciò che pensa ci troverà. Ruota il capo con uno strattone, poi lo ondeggia di lato perché è lì. Un letto matrimoniale rifatto in maniera ordinata, ma con i cuscini scoperti, e sulla federa bianca del suo una sigaretta.

C'è una casa ad Appleby Street ed è una casa come tante altre. A Rebecca viene da piangere. Dopo aver girato su se stessa come un cane in gabbia, si avvicina al letto come se fosse fatto d'aghi. Ci si siede sopra, si stende al posto di Lucas. Prende la sigaretta che le ha lasciato e se la infila tra le labbra. Con le mani che le tremano, se la accende anche, se ne riempie i polmoni mentre le sembra di affogare nelle lenzuola pulite. Ha il sapore spiacevole delle Alhamraa, e le si dissolve tra le dita proprio come le sigarette siriane.

C'era una casa ad Appleby Street e profumava di pulito e di legna riarsa, veniva riempita dopo anni in cui aveva sembrato solo costantemente svuotarsi. C'era una casa ad Appleby Street, una bella casa a due piani, e mesi dopo ci accompagnava Lucas Black dopo una lunga assenza che gliel'aveva restituito ferito, quasi morto. L'aveva aiutato a salire le scale, lentamente, e l'aveva steso sul loro letto. Lo aveva fatto spogliare e gli aveva cambiato tutte le fasciature e le bende con una pazienza per lei inusuale. Avrebbe voluto piangere per tutto il tempo, gli aveva chiesto di giurare cento volte che non sarebbe accaduto mai più, che avrebbe chiuso i conti con le Special Forces una volta per tutte. Basta esercito. Basta guerre. Lui aveva giurato. Una, due, tre, novantanove volte. Poi si era addormentato, ma prima di addormentarsi le aveva detto: se mi chiederanno di nuovo di partire, farò in modo di fartelo capire: non dovrai chiederti se sono partito, lo saprai. Ma hai giurato

C'è una casa ad Appleby Street e ora fa così male che Rebecca si addormenta con la sigaretta ancora accesa tra le dita sperando di non risvegliarsi. Alcuni pezzi di vita, ha detto a Levy, non andrebbero venduti, solo bruciati

* * *

I look at you all torn up
I left you waiting to bleed
I guess the truth works two ways
Maybe the truth's not what we need
[...]
But in my cold arms, you don't sleep
In my cold arms, you feel beat
In my cold arms 
You stay

the shape you made me


- E che cosa vuoi, Rebecca?
- Un angolo di vita che non sia un campo da battaglia.
* * *
Lo so che sei incazzato ma è passato un mese senza che ti facessi vivo e quando chiamo Garrika non mi fa parlare neanche con i ragazzini, mi sono rotta i coglioni di questa storia, di te e ti riparare i tuoi fottuti problemi senza ricevere niente in cambio, mi giri le spalle come se fossi l'ultima delle stronze e ora neanche Roe mi risponde. Ho fatto tutto per te 'Dre, ti ho dato soldi quando ne avevi bisogno e ho fatto molto più che darti soldi, e lo sai, e tutto ciò che riesce a venirti in testa dopo ventisei anni è questo fottuto risentimento del cazzo nato perché ho lasciato Magnolia, perché ho provato a fare qualcosa di meglio con la mia vita e ci sono riuscita. Aveva ragione Jamal quando diceva che siete un buco nero, che la nostra famiglia risucchia tutto e ci toglie la possibilità di fare cose, di diventare qualcuno, perché per qualche motivo non andare in galera a diciott'anni e non girare con una pistola nei pantaloni e non spacciare né farsi come degli stronzi è un tradimento di quella bella lealtà che ti sei pure tatuato sul collo. Lealtà di cosa? Lealtà a chi se io sono tua sorella e conosco solo la tua schiena? Funziona che dobbiamo stare vicini solo quando la nostra vita va a puttane? Vai all'inferno. Andateci tutti, uno per uno, voi e la vostra mentalità del ghetto del cazzo, io ne sono uscita, e mi ci sono voluti otto anni ma ora basta. Vuoi essere lasciato in pace, vuoi che i tuoi figli si scordino di me? Bene, racconta a tutti che sono io il nemico, raccontalo a Roe che quella ci crede anche e vent'anni che la conosco non hanno contato nulla, sembra, dillo a Garrika e a Tanika e ai tuoi figli e ditelo ai figli di Jamal e a quello di Tariq, dillo a nostri vicini di casa, dillo a nostra madre. Non me ne importa più niente, non sono io che dovrei nascondermi. Ma tu. Sei tu che non hai fatto niente di te, solo dei figli di cui non ti sai prendere cura e che deludi ogni giorno. Continua a bere, a bucarti, continua a gettarti nel cesso, non è più un mio problema. La prossima volta che ci rivedremo sarà al tuo funerale, ormai a New Orleans ci tornerò solo per i morti e il prossimo sei tu.
* * *

Bruciami la pelle spanna a spanna, hai palmi bollenti e gli errori hanno l'abitudine di rimodellarmi la pelle come se fosse di creta morbida. All'improvviso abito un corpo che non conosco e ogni mattina mi passo le dita sulla bocca, sul naso e sulle sopracciglia per controllare di avere ancora la stessa faccia con cui mi sono addormentata. Trasformami in carbone e poi soffiami tra i capelli per ravvivarmi e vedere se ci sono ancora rami buoni da ardere, ma fallo con discrezione, dimenticatelo non appena il fumo si alza e si spande e io mi perdo nell'aria dov'ero prima torna ad essere un luogo freddo.

Rompimi le ossa, non serve un manuale per farlo. Basta prendere la mira e colpire forte, e poi continuare a battere per scoprire in quanti modi diversi riesco a spezzarmi finché rimane niente a sostenere questi muscoli che ho addestrato alla lotta per anni, perché solo quelli ho potuto trasformare, mentre le ossa mi sono rimaste quelle di mia madre. Si sgretolano senza fatica, se vuoi puoi limarle per vedere se sento dolore, e se ce la fai puoi prenderti quello che proteggono. Trasformale in polvere, oppure ridisegna la struttura del mio scheletro, mettile in ordine come pensi sia meglio, come credi che abbiano più senso per te, per l'aspetto che pensi debba avere una cassa toracica, per come deve legarsi una spina dorsale. Se ne esco paralizzata puoi dire che è stata colpa mia dall'inizio, io non risponderò niente e tu saprai di avere ragione.

Asciugami il sangue: non mi serve, tutto ciò che fa è tradirmi. Lascia che un macellaio ti insegni il modo esatto per drenarmelo dalle vene e poi sii abbastanza paziente da sederti e guardarmi mentre lo raccolgo in bottiglie di vetro, e poi scrivi sull'etichetta a chi apparteneva: non sono più io, sono già un'altra e con i polsi asciutti non ho più niente a legarmi al posto dove sono nata, al destino dei miei fratelli o ai riti di mia madre e di mia nonna. Dissanguami, fallo per liberarmi - le mie arterie scendono nella terra come radici e non c'è modo di reciderle se pulsano di chi ero prima, quindi falle stare zitte, non voglio più questi nodi.

Tagliami tutti i capelli e regalami una crema che mi schiarisca la pelle, vestiti adeguati a coprirmi i tatuaggi e le cicatrici, un coltello per cavarmi entrambi gli occhi - sono vecchi e usati, incrostati di sporco, abili a vedere solo ciò che vedevano dieci anni fa e io non li voglio. Regalameli nuovi, lucidati, magari azzurri. Me li spingerò nelle orbite e batterò le palpebre tre volte, alla quarta il mondo sarà già nuovo. Lavami con la varechina e avvolgimi nella plastica, ora sono pronta. Ci sono, sono come mi hai voluto. Come mi hai fatta.

* * *
- [...] Ogni volta che mi tolgo la divisa sono esausta.
- Smetti di indossarla, se ti uccide in questo modo.
- No. Mai.

it's time for you to go


Quando bussa alla sua porta, Michael le apre. E' convinta fino all'ultimo momento di star facendo uno sbaglio, ma i piedi le rimangono comunque incollati di fronte l'uscio, e poi oltre, attraverso l'ingresso e poi nel soggiorno. Dovresti tornare a casa tua, dice lui, perché? deve chiedergli lei, ma ha già un paio di idee in mente. Perché sei stanca e turbata e ubriaca. Rebecca sorride piano. Non sono così ubriaca, ed è vero, non lo è. Cosa pensavi di me quando ero nelle Special Forces? Lui è a casa sua ma non sa dove mettersi. Rimane in piedi di fronte a lei, sul divano. Pensavo che eri un soldato molto bravo. Lei scuote il capo, e poi cos'altro? 
Pensavo che le persone come te mi facevano paura, che eri pericolosa. E lei: perché? Perché a quelli come voi l'esercito ha insegnato a svuotare la testa di tutto l'inessenziale e nell'inessenziale lasciavi andare anche l'essenziale, il motivo per cui eravamo lì. E poi per Osley, dopo che ho saputo di Fayyad, e ho visto i video, e ho scoperto che erano state istruzioni tue, la tua mano, il tuo target. Lei risponde: Salim non era il mio target. Salim era un ragazzo. Me lo ricordo, risponde lui, e alla fine le si va a sedere accanto.
Ci sto provando, dice lei pianissimo, come in una preghiera. Sto provando a fare il tuo ruolo. E' un ruolo ingrato, e solo, e mi sta bruciando tutti i ponti. Non ho più niente di mio, non un angolo, il lavoro ha ingoiato ogni cosa. Michael sorride e le bacia la fronte. Lei gli bacia la bocca, lui esita ma alla fine non si allontana. Sospira ad occhi chiusi. Dovresti tornare a casa tua, ripete. Me ne andrò se me lo chiederai tre volte, e sei già a due. Michael scuote il capo: quello che cerchi non è mai stato qui, soldato King, le prende le mani per fermarle, gliele chiude tra i suoi due palmi. Solo compagnia, promette lei, e lui scuote di nuovo la testa, redenzione, la redenzione non è mai stata qui, non sono io a poterti perdonare. Rebecca oscilla il capo pigramente, impaziente: io arrivo fin qui, non so andare oltre Michael, questa è la versione migliore di me. La versione migliore di me è un'isola, una zattera in una tempesta, la versione migliore di me ha il venti percento del corpo ustionato e la pelle fatta d'aghi. Si baciano di nuovo, si cercano, si ritrovano finché Michael prende un respiro profondo, prende un respiro doloroso e addolorato e preme la fronte contro la sua, e dice piano sei stanca, turbata e ubriaca. Ne parleremo domani, ne parleremo bene. Rebecca vorrebbe tappargli la bocca, ma alla fine glielo lascia dire per la terza volta: dovresti tornare a casa tua. Sfiata una risata esausta dalle labbra e si rimette in piedi, di inietta le mani nei capelli, si riallaccia il giacchetto. Sì, si dovrei. E' l'ultima cosa che gli dice, poi imbocca la porta. In ascensore pensa di chiamare sua madre, ma si rende conto che è troppo tardi. E' troppo tardi per chiamare chiunque.

- - -

Marshall Rankin le dice: è un peccato, mi ci stavo affezionando a te. Lo guarda andare via, pensa di doversi abituare a vedergli solo la schiena. Pensa ancora, a ogni cosa, alla rapidità con cui le ha voltato le spalle e pensa che tutto sommato non ci ha creduto mai, nemmeno per un secondo. O forse per quel secondo soltanto, ma quanto può valere? A niente, si risponde. Non vale proprio a niente.



What if I said I would break your heart?
What if I said I have problems that made me mean?
What if I knew I would just rip your mind apart
Would you let me out?
Maybe you can stop before you start
Maybe you can see that I just may be too crazy to love
If I told you solitude fits me like a glove
Would you let me out?

You ought to know where I'm coming from
How I was alone when I burned my home
And all of the pieces were torn and thrown
You should know where I'm coming from

What if I said I was just too young?
What if I said I was built on bricks of carelessness and crumbs
What if I said I'd be gone before I could come
Would you let me out?

Your sought out ways
My own, my own
But you turn me away from my low blows
Boy, you should've known.