hunger

Guida su strade sgombre. A bordo di una black car di cui ha schiarito i finestrini, dal centro della città in direzione del vastissimo Southside. Sbadiglia di frequente ma si costringe a tenere gli occhi aperti. Accelera con impazienza, per arrivare prima e per impedire ai pensieri che le corrono dietro da ventiquattro ore di raggiungerla.

Quando il ragazzino ha parlato della sua abitudine di rubare, lei l'ha registrato marginalmente come un problema, e ha continuato a cercargli addosso i segni di qualche tipo di abuso, di dipendenza. Si è accorta con due battiti di ritardo del fastidio che intanto aveva irrigidito la schiena di Lucas. Gli ha detto: lo sai come funziona. Poi si è chiesto se lo sappia davvero - ha sempre dato per scontato che, in quanto figlio del buco nero che sono le periferie malfamate statunitensi, avesse incontrato più o meno gli stessi disastri che ha incontrato lei, e che si fosse abituato a tollerare i piccoli crimini di sopravvivenza. Che avesse imparato le stesse cose che ha imparato lei stando per strada.

Brucia un semaforo rosso che ha visto benissimo, tagliando in due la South Street prima che una macchina in senso convergente le possa andare addosso. Non sente nemmeno il rumore del clacson, davanti agli occhi le sembra di avere soltanto il volto emaciato di Mihael, la sua aria perennemente affamata, l'orgoglio che gli impedisce di farsi aiutare. Lei lo sa. Il volto del ragazzo e quello di Tariq le si confondono dietro la retina. I polsi le prudono, poi le bruciano. La povertà è un circolo vizioso, l'ha imparato. Ti svuota dentro e si insinua al posto di tutto il resto, finché non riesce a convincerti che non vali più di quello che hai, cioè: niente. E' un degrado che parte dal centro del cervello e che ti impedisce di conoscere qualsiasi altra cosa. Per questo non ne esci se qualcuno ti porge una mano. Perché passare una vita a ricevere schiaffi ti fa pensare che le mani non siano capaci di dare carezze. Servono anni di rieducazione per imparare a tracciare una linea dritta e a camminarci sopra, o anche solo a rendersi conto che farlo non vuol dire tradire se stessi. Che nessuno è costantemente incatenato alla sorte con cui nasce.

Svolta dove il navigatore le dice di svoltare, poi rallenta sensibilmente iniziando ad esaminare i numeri sui portoni, là dove ce ne sono. Li mormora per dimenticare l'astio di Lucas verso chi non rispetta le regole. Deve spalancare la bocca e respirare a pieni polmoni più volte perché il terrore non la conquisti. Lucas avrebbe odiato Tariq e tutti i suoi fratelli? Odierebbe sua madre e sua nonna, se sapesse la loro storia? Odierebbe lei, se gli raccontasse tutto? 

Cinquantotto. Vedere Celement sul marciapiede le fa tirare un sospiro di sollievo. Gli fa un cenno ampio e lo vede avvicinarsi con cautela alla macchina, poi riconoscerla. Mentre apre lo sportello, Rebecca si ricorda di avere ancora la spilletta dell'SCF sul bavero della giacca, e si affretta a toglierla e farla cadere in una tasca.

Clement è un ragazzino di tredici, quattordici anni. Entra nell'abitacolo già cupo, preparato alla sfuriata.
- Che cazzo ti passa per la testa ad andare in giro a quest'ora da solo? Come diavolo ci sei arrivato qui? Hai chiamato i tuoi genitori? Saranno fottutamente preoccupati.
- Pa' non è a casa -, mormora lui, e Rebecca si acciglia.
- In che senso?
- Ma' si è addormentata sul divano. Ho visto che erano le due e ancora non era tornato, e allora sono andato a cercarlo per riportarlo a casa prima che ma' si svegliasse, okay? Così per una fottuta volta non si lanciavano appresso le cose.
- Non è la prima volta che succede?
- La seconda da quando siamo qui. E' un cazzo di caso clinico, zia. Non si è ancora trovato un lavoro e non so nemmeno che cosa ci siamo venuti a fare qui, stavamo bene a Magnolia e ogni volta che chiedo non mi dicono nemmeno più quando ci torneremo, Cristo.
- Devi darti una calmata, Clement.
- Dobbiamo andare a cercarlo.
- No, ti riporto a casa.
- Ma...
- Non so neanche da dove iniziare, Clem. E se tua madre si sveglia le prende un infarto a non trovarti, quindi ti porto lì, 'kay? 
- No vaffanculo, non torno a casa se non lo trovo, fammi scendere.
- Non-- lascia quella cazzo di portiera!
- Tanto che ti frega a te, ti sei trovata un lavoro e un uomo e la famiglia te la sei scordata, e di pa' non ti frega un cazzo.
- Chiudi quella fottuta bocca prima che ti ci infilo le nocche, Clement King.
Clement borbotta insulti, ma a voce sufficientemente bassa da permettere a Rebecca di fingere di non aver sentito. Il resto del tragitto lo fanno in silenzio. Una volta arrivati al 43 di Panama Street, lei gli poggia una mano sulla spalla mentre lui sta uscendo dall'abitacolo. 
- Faccio un giro nel quartiere e vedo se lo trovo, okay? E piantala di mandare foto a Cornelia Bendis.
Clement strattona via la spalla e si sbatte la portiera alle spalle. Lei controlla che entri nel portone, poi sospira a fondo e si reimmette nella strada.

the only life I'll ever get


Cosa faresti con le altre vite? Diciamo che puoi viverne altre due.

Risponde a Marcus che in una studierebbe. La vivrebbe con agio, sui libri fin dall'infanzia. Andrebbe al college e magari poi continuerebbe a studiare, specializzandosi in qualche materia che le garantisse un buon lavoro e una paga sufficiente a tutelare se stessa e tutta la sua famiglia dalle incertezze della povertà. Ha vissuto inverni interi senza riscaldamento, senza soldi a sufficienza per mangiare più di due volte al giorno. Quando la caldaia si ruppe si lavarono per due mesi con l'acqua fredda, finché ad Andre non venne in mente di cercare nella pagina dei necrologi dei giornali e andare a rubarla dalla cantina di un morto fresco, che non ne avrebbe più avuto bisogno. Hanno tutti spacciato, chi prima e chi dopo. Hanno fatto ogni singolo lavoro che il loro quartiere offrisse, tutti prima dei diciott'anni. Alla ricerca di una via d'uscita dalla miseria in cui erano nati, già in catene prima di imparare a camminare, alcuni di loro sono anche morti.

Hanno sbagliato qualcosa, tutti loro. Con la terza vita farebbe tutto ciò che ha già fatto, ma correggendo gli errori. Tutti quelli correggibili, almeno. Riempirebbe Tariq di botte fin da piccolo, invece di lasciare New Orleans rimarrebbe a controllarlo crescere, tenendolo per la collottola fuori da tutte le spirali che lo hanno trascinato verso il basso e l'hanno gettato tra le braccia ipertrofiche di un uomo in maschera. Impedirebbe ad Andre di infilarsi nei giri in cui si è infilato, e una notte più delle altre lo avrebbe legato mani e piedi per impedirgli di andare a Baton Rouge. A Jamal insegnerebbe a tenere sempre le mani bene in vista. A non alzare il cappuccio della felpa sulla testa, forse a rimanere nel suo ghetto, a tenersi lontano dai quartieri bene, dalle case a schiera che partoriscono i mostri della loro società. Poi raddrizzerebbe i suoi errori. Si terrebbe lontana da Osley. Prima di quello, si terrebbe lontana da Baton Rouge. Prima ancora, chiederebbe ad Antoine - l'unico uomo che abbia mai provato a farle da padre - di aver paura della tempesta, ma soprattutto di aver paura degli uomini nella tempesta, di ciò che possono diventare. Lo supplicherebbe di restare a casa.

Se avessi una figlia come te, le confessa Marcus mentre le accarezza la testa, le direi che sono fiero di com'è. Di continuare ad essere irrequieta e di volere non tre vite ma anche dieci. Le direi che qualsiasi errore ce lo portiamo dietro, ma di diminuirne il peso.

Antoine gli somigliava? Se lo chiede mentre ingoia il nodo che le stringe la gola. Non tre vite, ma anche dieci - ma Marcus Dansi è un mezzo dio e può pretendere tutte le vite che desidera. Lei ne ha a disposizione solo una, e non abbastanza tempo perché gli errori che ha fatto possano pesarle di meno sulle spalle. Si mettono in fila e ballano sulla sua schiena ogni notte, tenendola sveglia. Le sibilano dietro i timpani, direttamente tra le tempie, che ha perso ogni diritto di sentirsi leggera il giorno in cui i suoi errori hanno distrutto delle vite che non appartenevano a lei.

Neanche una.


home #3 - for a little while

1 gennaio 2024, New Orleans

Sulla soglia di casa, Tyonda King saluta sua figlia imponendosi di sorridere, nonostante il cuore minacci di scoppiarle nel petto. Alle sue spalle, sua madre Justine guarda severamente l'uomo bianco che sua nipote ha portato a casa. Ha la schiena dritta e le spalle allineate dei militari, combinate con un cipiglio ieratico da stregona. 
- Non le hai detto nulla.
- Non cambierebbe il corso degli eventi, mama.
- Dovrebbe rimanere qui.
- Lo sa. Ma non può. I morti la tormentano.
- I nostri morti la proteggono più di tutti i gris gris che possiamo donarle o le preghiere di salvezza che possiamo inciderle addosso.
- Ha bisogno di seguire la sua strada.
Justine scuote il capo e inspira a fondo, riempiendosi i polmoni di freddo.
- Dobbiamo parlare di tuo figlio.
- Di Andre?
- E' uscito tre mesi prima del suo tempo, Tyonda. Il giorno prima che uscisse hanno arrestato tutti i ragazzi dei Theroux. Sai cosa diranno.
Tyonda rimane in silenzio e osserva distratta la macchina che si allontana lungo la strada.
- Sai cosa accadrà -, insiste Justine.
- Lo manderemo via per un po', mama.
- Via da New Orleans?
- Chi è rimasto fuori della gente dei Theroux?
- Il figlio di Niquette Pascal ed entrambi i fratelli piccoli Sadine. 
- Lo manderemo via da New Orleans, solo per un po'. Per il tempo necessario.
Justine fissa il profilo di sua figlia per un lungo istante, poi annuisce. Non si dicono altro.

 - - -

18 Gennaio 2024, Philadelphia.
- Che vuol dire che ci lasci l'appartamento? -, chiede Andre sinceramente sorpreso. Rebecca rotea gli occhi al cielo.
- Checcazzo 'Dre, fatti due conti: voi siete quattro, io ho un monolocale con un letto doppio e un divano letto. Dove dovrei mettermi?
- Ti sei rincoglionita da quando hai iniziato ad avere due soldi in tasca? Per i ragazzini mettiamo i cuscini del divano per terra ed è fatta, che ci vuole. Mica si straniscono.
Garrika, passando, sgrana bene gli occhi e guarda suo marito con aria più che truce. Rebecca la rassicura con un cenno delicato della mano che riesce a muovere, facendola procedere.
- Va bene così, ho già spostato tutto.
- Dove?
- A casa di Lucas. 
- Del bianco?
- Sì, abbiamo deciso di vivere insieme.
- Col bianco. In una casetta a schiera dei sobborghi, magari.

Il sorriso molesto di lui si trasforma in una smorfia contrariata quando vede sua sorella guardare altrove, evadere la domanda.
- What the fuck, Bequette...
- Non chiamarmi Bequette. Per qualsiasi cosa comunque basta che mi chiamate e arrivo. L'affitto è pagato per i prossimi due mesi, per cui state tranquilli. Ti ho lasciato sul tavolo alcuni annunci di lavori part time per te e per Garrika, e le scuole per i ragazzini.
- Le scuole? Ma vanno a scuola a Magnolia...
- Sì 'Dre, cristo santo... non è che stanno in vacanza, devi mandarceli a scuola anche se resti solo un mese. E comunque ripasso domani per vedere come siete messi. Okay?
- Okay. Reba...
- Cosa?
- Sei sicura di questo Lucas?
- Perché, che ha che non ti piace?
Andre si produce in una smorfia malriuscita.
- Ha l'aria da sbirro. Sei sicura di conoscerlo così bene come credi, ah? 
Rebecca sorride piano, esausta. Sotto il cappotto, ha bendaggi che reggono insieme ferite ancora fresche.
- Sono abbastanza sicura, 'Dre. Ma grazie per esserti preoccupato. 

all about politics


"Era una recluta - recita Madsen, capitano del Team White, mentre legge compostamente dal suo forcepad il curriculum di Harold Preston - appena uscito dall'accademia speciale, ventitré anni." 
Rebecca ascolta con sguardo vuoto, mentre un medico le rimuove con cura dal braccio gli aculei piantati nella carne. Il rush di adrenalina è passato da un po', e adesso sente il dolore fino alle ossa. Lo tollera in silenzio, sapendo di meritarselo. Madsen la guarda dall'alto verso il basso, chiedendosi se l'abbia sentito. Ha una lunga storia nell'SCF, ma per la promozione si è visto passare avanti una ragazzina che ha passato la maggior parte della sua carriera nelle Special Forces, nota in patria perlopiù per aver incassato qualsiasi temibile scontro senza essere ancora morta. Con la sorpresa dei più. Tutta colpa dell'affirmative action, ha detto Madsen più volte ai suoi colleghi: cazzate politiche, ha insistito, per poi argomentare che giuro su Dio, non c'è niente di peggio in America, al giorno d'oggi, che essere un maschio bianco eterosessuale. Molti hanno annuito. Insomma: del resto ha solo ventisei anni.

"Ne hai ancora molto? Possiamo andare a notificarlo alla famiglia insieme, sua madre vive a mezz'ora da qui."
"Tra un quarto d'ora avremo finito", anticipa il medico, mentre Rebecca storce le labbra, cercando una messa a fuoco per gli occhi pieni di un sospetto malato, attento. 

Ha sentito le voci anche lei - lo scontento. Come se non bastassero gli attacchi esterni. I Phoeni-X, e i Night Soldier. Come se non bastasse Sheridan Hoover e il suo desiderio di fare giustizia da solo, in maschera. Come se non esistesse il Syndicate e il locale distrutto di Schreber, di cui vorrebbe cercare la solidissima sicurezza, le convinzioni incrollabili, e che invece si ritrova a evitare per non dovergli dare una risposta alla sua domanda. Ricostruire? Sì: ma si presterebbe a un nuovo attacco, forse più violento, sanguinoso, in piena apertura. No - ma allora in quel caso vincerebbero loro o, peggio ancora, penserebbero di aver vinto. E lei dovrebbe pensare di aver perso. La mattina si sciacqua il viso con acqua gelida per cercare di riassorbire le occhiaie. La notte si rigira nelle lenzuola, e quando sogna Osley ci mette dentro anche la sua vita di Philadelphia. Quella che ha voluto crearsi per lasciarsi alle spalle Israele e il fondo del Mississippi. 

"Quindi vieni?", insiste Madsen. Perché Madsen insiste. Rebecca gli spinge addosso un'occhiata acuminata. Forse sa. Sa che la morte di Preston è colpa sua. Sa che se Rebecca avesse sparato subito, senza dare per la seconda volta l'ordine di buttarsi a terra e arrendersi, Harold Preston sarebbe ancora vivo. Legalmente era obbligata a farlo una sola volta. Ha voluto ripeterlo perché dietro la minaccia ha voluto vedere non un criminale, ma un ragazzo con in testa il cappuccio di una felpa. Un ragazzo che aveva fatto una cazzata e voleva solo scappare e non farsi rovinare la vita.
"No."
"No?"
"Prendi Grossman, è bravo in queste cose."
"Potrebbero voler sentire la storia intera... Grossman non era lì quando è successo, King."
I muscoli delle labbra le si muovono in un cenno aspro che ha lo scheletro di un sorriso sardonico. Pianta gli occhi addosso a Madsen.
"Vicedirettrice King, agente incaricato Madsen. Cosa non ha capito dei miei ordini?"
Madsen trasale. E' un uomo abituato a risolvere i contrasti con le nocche, e non poterlo fare gli lascia addosso l'impressione di una caduta libera. Rebecca continua a fissarlo in attesa di una risposta.
"No ma'm. Tutto chiaro."
"Bene. Può andare."
Madsen sillaba inudibilmente la parola troia non appena esce dall'ambulatorio. Rebecca si trascina il palmo buono sulla faccia e torna a guardarsi le ferite in via di sutura. 
"Quindici minuti, ha detto?"
"Sì, quindici minuti."
"La prossima volta se lo tenga per sé."

if this fear gets the best of me


- Oh  shit. Oh, shit, ooo-oh shit.
Rebecca è fuori dal proprio corpo. Si sporge sul suo corpo-vero e geme senza che nessuno possa sentirla. Un medico le preme i palmi contro il petto per farle riavviare il cuore, ma le macchine continuano a mostrare una linea piatta. I suoni sono più distanti, Lucas sembra terrorizzato. Lei urla al medico di fare qualcos'altro, di provare qualcos'altro. Si infila le mani nei capelli e piange. Qualcosa la strappa da quel piano d'esistenza e la riporta violentemente nel proprio corpo. Il dolore è lancinante.

Chiede a Lucas di andare a prenderle una cioccolata calda. Non appena è sicura che lui si sia richiuso la porta alle spalle, si toglie di dosso il lenzuolo e si guarda le gambe. Le colpisce con la poca energia che ha, senza pazienza si aspetta di muoverle, ma non ci riesce. Quando la mattina dopo Michael aspetta che Lucas se ne sia andato per tornare a trovarla - mentre è cosciente, questa volta - lei gli lancia contro un vaso di fiori e gli urla che nulla di tutto questo sarebbe successo se si fosse fatto gli affari suoi su Osley e su tutto quello che è successo dopo l'attacco all'ambasciata. Che se come si combatte la guerra gli fa così schifo, poteva restare a disegnare power shell nel suo palazzo.

Marcus Dansi le prende i piedi tra le mani e, mentre li muove, le racconta una storia. Lei lo guarda e pensa che vorrebbe anche lei essere diversa dagli altri, divina. O semidivina: semidivina le basterebbe. Avere più tempo sulla terra ed essere sufficientemente forte da poter difendere quel tempo. Il giorno dopo Iris Carter la chiama per dirle che il mondo sta per finire. Prende un respiro profondo e mentre un'altra mezza divinità le ricorda che è in grado di essere più rapida di qualsiasi agente a sua disposizione, lei deve aiutarsi con un paio di pesanti stampelle per uscire dall'ascensore che l'ha portata al piano terra dell'ospedale, e rischia di inciampare due volte.

Mentre suo fratello lotta contro il panico, trascina un borsone pesante fin sull'orlo di una sponda di cemento, poi la suola solida degli anfibi lo spinge e lo fa affondare nel Mississippi. Sei anni e mezzo dopo apre gli occhi lentamente e trova Lucas addormentato seduto, accanto a lei, con il viso affondato nelle braccia conserte poggiate sul materasso. Gli accarezza i capelli piano, per non svegliarlo. E' un uomo anche lui - solo un uomo. Nessuno di loro due sarà mai nient'altro. Possono solo fare del loro meglio con ciò che gli è stato dato.

home #2 - we had a bet


Lucas fa la fila al bancone per prendere da bere, mentre una Rebecca già brilla, con il respiro accorciato dal movimento, si lascia cadere seduta su uno dei divanetti dello scantinato di Magnolia riadibito a locale per ballare. Roe le porge uno spinello da cui lei riesce a fare giusto un paio di tiri prima che anche Andre caschi accanto a lei, sfilandoglielo dalla mano. "Non dovresti..." prova a dirgli lei; "e tu sì?", la azzitta lui.

Sospira. Roe le bacia la tempia e Andre tira i capelli a Roe solo per darle fastidio e passare il braccio dietro le spalle della sorella. 
"Ci avevamo scommesso che un giorno c'avresti riportato un bianco a casa, sis'", dice lui, e da lontano guarda Lucas che non se la prende per la spallata che riceve da una donna ubriaca che gli passa davanti.
"Eh?"
"L'abbiamo considerato
- gli fa eco Roe - quando ti sei arruolata, ma pensavamo sarebbe stato intanto che stavi nell'esercito, non dopo averlo lasciato per andare nel culo delle Americhe."
"Philadelphia non è il culo delle Americhe."
"Non è neanche il centro
- replica Andre, sorridendo beota - e la buttafuori del cazzo potevi farla pure in Louisiana, no? Non abbiamo abbastanza locali di merda che incontrano i tuoi gusti, Bequé?"
"Non chiamarmi Bequé."
"Che poi è carino, eh. Educato...
 - sbadiglia Roe, protendendo un braccio dietro la nuca di Rebecca solo per sottrarre lo spinello alle dita di Andre - ha un bel culo."
"In cui qualcuno ha infilato un palo."
"Roe, non parlare del suo culo. 'Dre, ora piantala."
"Devi difenderlo? E' sensibile?"
, la prende in giro Andre.
Roe ride tra i denti, intossicata: "Dobbiamo riconvertire la scommessa su quanto durerà"
"Con o senza pal--"
"E' il sesso migliore che abbia fatto in vita mia e non vedo l'ora di uscire da qui così da potermelo trascinare in un vicolo e saltargli addosso mentre voi andate a prendere la macchina."
Roe sbatte le palpebre un paio di volte, mentre il volto di Andre si piega a rilento si un'espressione di terrificato disgusto. Rebecca sorride piano, solo adesso soddisfatta.

"Mi siete tanto mancati", commenta finalmente allegra, con un tono pieno di contraffatta frivolezza, mentre Lucas torna verso di lei con due bicchieri di ottimo Hennessy.