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"Era una recluta - recita Madsen, capitano del Team White, mentre legge compostamente dal suo forcepad il curriculum di Harold Preston - appena uscito dall'accademia speciale, ventitré anni." 
Rebecca ascolta con sguardo vuoto, mentre un medico le rimuove con cura dal braccio gli aculei piantati nella carne. Il rush di adrenalina è passato da un po', e adesso sente il dolore fino alle ossa. Lo tollera in silenzio, sapendo di meritarselo. Madsen la guarda dall'alto verso il basso, chiedendosi se l'abbia sentito. Ha una lunga storia nell'SCF, ma per la promozione si è visto passare avanti una ragazzina che ha passato la maggior parte della sua carriera nelle Special Forces, nota in patria perlopiù per aver incassato qualsiasi temibile scontro senza essere ancora morta. Con la sorpresa dei più. Tutta colpa dell'affirmative action, ha detto Madsen più volte ai suoi colleghi: cazzate politiche, ha insistito, per poi argomentare che giuro su Dio, non c'è niente di peggio in America, al giorno d'oggi, che essere un maschio bianco eterosessuale. Molti hanno annuito. Insomma: del resto ha solo ventisei anni.

"Ne hai ancora molto? Possiamo andare a notificarlo alla famiglia insieme, sua madre vive a mezz'ora da qui."
"Tra un quarto d'ora avremo finito", anticipa il medico, mentre Rebecca storce le labbra, cercando una messa a fuoco per gli occhi pieni di un sospetto malato, attento. 

Ha sentito le voci anche lei - lo scontento. Come se non bastassero gli attacchi esterni. I Phoeni-X, e i Night Soldier. Come se non bastasse Sheridan Hoover e il suo desiderio di fare giustizia da solo, in maschera. Come se non esistesse il Syndicate e il locale distrutto di Schreber, di cui vorrebbe cercare la solidissima sicurezza, le convinzioni incrollabili, e che invece si ritrova a evitare per non dovergli dare una risposta alla sua domanda. Ricostruire? Sì: ma si presterebbe a un nuovo attacco, forse più violento, sanguinoso, in piena apertura. No - ma allora in quel caso vincerebbero loro o, peggio ancora, penserebbero di aver vinto. E lei dovrebbe pensare di aver perso. La mattina si sciacqua il viso con acqua gelida per cercare di riassorbire le occhiaie. La notte si rigira nelle lenzuola, e quando sogna Osley ci mette dentro anche la sua vita di Philadelphia. Quella che ha voluto crearsi per lasciarsi alle spalle Israele e il fondo del Mississippi. 

"Quindi vieni?", insiste Madsen. Perché Madsen insiste. Rebecca gli spinge addosso un'occhiata acuminata. Forse sa. Sa che la morte di Preston è colpa sua. Sa che se Rebecca avesse sparato subito, senza dare per la seconda volta l'ordine di buttarsi a terra e arrendersi, Harold Preston sarebbe ancora vivo. Legalmente era obbligata a farlo una sola volta. Ha voluto ripeterlo perché dietro la minaccia ha voluto vedere non un criminale, ma un ragazzo con in testa il cappuccio di una felpa. Un ragazzo che aveva fatto una cazzata e voleva solo scappare e non farsi rovinare la vita.
"No."
"No?"
"Prendi Grossman, è bravo in queste cose."
"Potrebbero voler sentire la storia intera... Grossman non era lì quando è successo, King."
I muscoli delle labbra le si muovono in un cenno aspro che ha lo scheletro di un sorriso sardonico. Pianta gli occhi addosso a Madsen.
"Vicedirettrice King, agente incaricato Madsen. Cosa non ha capito dei miei ordini?"
Madsen trasale. E' un uomo abituato a risolvere i contrasti con le nocche, e non poterlo fare gli lascia addosso l'impressione di una caduta libera. Rebecca continua a fissarlo in attesa di una risposta.
"No ma'm. Tutto chiaro."
"Bene. Può andare."
Madsen sillaba inudibilmente la parola troia non appena esce dall'ambulatorio. Rebecca si trascina il palmo buono sulla faccia e torna a guardarsi le ferite in via di sutura. 
"Quindici minuti, ha detto?"
"Sì, quindici minuti."
"La prossima volta se lo tenga per sé."