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Dodici anni dopo, rientra nella sua bella casa nella Old City di Philadelphia, esausta dopo l'ennesimo litigio con suo fratello. La prima cosa che fa, ancora prima di liberarsi della pistola che porta sotto la giacca, è dar da mangiare al suo cane, Mags. La lascia tuffarsi nella ciotola e raggiunge il divano. Ci si lascia cadere sopra nella semioscurità, lasciando che gli occhi le si perdano nel camino spento ormai da due settimane ininterrotte, nonostante il freddo - lei non ha ancora imparato ad accenderlo -. Controlla per l'ennesima volta il cellulare e non vi trova messaggi. Si toglie la giacca, la pistola, la fondina. Si toglie le scarpe, la camicia e i pantaloni. Poggia tutto ordinatamente sulla poltrona, poi si stende sul divano, lentamente, con gli occhi rivolti verso l'alto. Fa un respiro profondo e lascia che ogni singolo pensiero che le abbia navigato in testa nell'ultimo mese si muova liberamente, fluisca nel corpo ed evapori nell'aria attraverso i pori della pelle.
La faccia sporca di Marshall Rankin e quella pallida di Pearl Quinns sono le prime che le vengono in mente. Si conta le nocche e smette di ripetersi che andrà tutto bene, che il Messico non è una missione suicida e che ne usciranno interi tutti quanti, nessuno escluso - si concede di non pensarlo e, anche se per pochi secondi, rinuncia alla fatica di crederci in maniera incondizionata, quasi dogmatica. Pensa al ragazzo spaurito che ha registrato come vigilante - Oracle, l'analista - e si ripete che se l'hanno voluto deve essere più in gamba della media, più intelligente della media, più in grado di aiutarli a rendere l'operazione meno rischiosa possibile. Si passa i pollici sulle costole, contandole sovrappensiero una a una. Pensa ad Abraham Murphy e trattiene il respiro, premendosi le ossa contro i polmoni nel tentativo di associare al pensiero una reazione fisica negativa. Se le Special Forces sono riuscite a insegnarle a non sentire il dolore, deve allora essere anche in grado di strapparsi dalla pancia la curiosità fisica, il prurito dietro la nuca. Pensa alle parole di Meyer, quando le ha detto che è questione di aver fiducia in ciò che si è costruito. Lei ce l'ha? Non ha mai avuto una casa così grande e così vuota. Si è sentita una stupida quando si è resa conto di non avere foto di sé e Lucas insieme, e adesso si impone di ingoiare il panico nella constatazione che, se gli accadesse qualcosa, non avrebbe nulla a testimonianza del fatto che Lucas Black è esistito, e che per un po' di tempo la sua vita e quella di Rebecca King si sono incrociate, si sono legate e modificate come due elementi complementari in una reazione chimica.
Sono felice per voi, posso fare il paggetto? Si concentra su quello: su Hoover in abiti da paggetto. Ma riesce ad escludere selettivamente dalla memoria le sue parole più dure solo per poco, e alla fine la sua voce che ripete di non fidarsi le rimbomba nella testa insieme a tutte le altre. Non puoi farti entrare in casa qualcuno che se la fa con Wild. Dovresti iniziare a dormire con un occhio aperto. Alza gli occhi ai limitari delle pareti, là dove Lucas ha installato un sistema di sorveglianza e allarme. Ci sono sensori in tutta la casa. Sensori in tutta la casa registrano la sua solitudine e la malafede che ha offerto a Mihael McRush, un ragazzino che non le ha mai fatto un torto e che forse mai glielo farebbe, un ragazzino che le ricorda suo fratello più piccolo e che avanti di questo passo farà la stessa fine. La frustrazione le sale alla testa, le fa quasi male. Si preme i pugni sugli occhi come se le nocche dovessero scavare nel cranio. E' una vita che non chiama sua madre e forse dovrebbe. Mags, finita la sua cena, le si arrampica sulla pancia e dopo averle camminato addosso prova a leccarle la faccia. Rebecca si fa riscuotere dai propri pensieri un attimo prima di cadere nella spirale discendente con il nome di Andre King forgiato sopra.