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Ma respira?

I medici dicono di sì, ed è l'unica cosa che possono dirle. E' arrivata dalla palestra del Building, senza neanche passare dalle docce, e indossa la bomber jacket a fiori direttamente sopra la canottiera. La stanza in cui l'hanno portato è singola, vuota. Ha pensato di andare sul posto, al Cimitero, ma i suoi uomini ci sono già, Lucas c'è già. Non poteva neanche rimanere ferma, però. Nell'accostarsi al letto di Maximilian Lee, si sente un'intrusa. Forse dovrebbe andare, ma non vuole lasciarlo solo. Mi può sentire? ha chiesto in corridoio. Probabilmente no.

Si siede. Non vorrebbe, ma stando in piedi le sembra di sovrastarlo, e non vuole incombere come si fa sulle bare aperte dei morti, esposte. Come si fa con i cadaveri: è bianco come un cadavere, immobile come un cadavere, ma deve rifiutare di pensare a lui in quei termini. Respira. A volte respirare è abbastanza.
"Mi dispiace, Lee. La gente dovrebbe essere viva o essere morta. Queste vie di mezzo sono l'inferno."
Lo mormora. Pensava che parlare a un comatoso l'avrebbe fatta sentire stupida, ma dire quelle cose ad alta voce ha un effetto stranamente catartico. Liberatorio. E' ciò pensava quando nessuno sapeva dire con precisione se Lucas sarebbe mai tornato a muoversi: che morire sarebbe stato meglio di scoprire il proprio corpo come una prigione con sbarre fitte. Inscalfibili. Si era scoperta a pensare con risentimento al futuro da badante che l'avrebbe aspettata, al fianco di un uomo infelice e immobile che non avrebbe avuto il coraggio di lasciare. Quando ricorda quelle sensazioni, va a cercare una fede all'anulare di Maximilian. Anche lui ha qualcuno che penserà le stesse cose? O forse quel qualcuno sarà una persona migliore di quanto non sia stata lei? 
"E' questa città. Non ho mai rischiato la vita così tanto che in questa città. Nei reparti speciali dell'esercito ci sono regole, calcoli. Sai cosa accadrà o puoi prevederlo con una discreta approssimazione. Ma combattere contro queste cose-- non ci sono regole. Vale tutto e il contrario di tutto. E questo lavoro..."
Serra le labbra. E questo lavoro? Quando le Special Forces le hanno mostrato la porta, tutto ciò che desiderava era un'altra Prima Linea che la tenesse lontana da casa. Un'altra causa a cui dedicarsi anima e corpo, un altro qualcosa che le facesse alzare i livelli di adrenalina. Che le desse quel brivido.
"... Questo lavoro è la cosa che alla fine ti uccide. E' la responsabilità. La gente che si affida a te, che devi proteggere. E' una zavorra, ti bloccano i piedi. Finché non sei diventato troppo lento, troppo ragionevole, troppo impaurito all'idea di sbagliare. Diventi un bersaglio più facile in un ruolo che ti costringe ad essere esposto. E prima o poi arriva qualcuno che prende la mira e spara. E' un lavoro di merda. Mi dispiace che sia toccato anche a te."
 E' un lavoro di merda, ma ce ne sono di peggiori. Torturare la gente è peggiore. Uccidere dei ragazzini è peggiore. Il pensiero le fora il cervello come un ago, e le fa male. Per non mettersi a piangere deve passarsi una mano sugli occhi e schiarirsi la voce due volte. A spingere i cattivi sentimenti nello stomaco è diventata eccellente, ormai.
"Ma sopravvivere a volte è solo una questione di volontà. Di testa dura prima che di pelle spessa. Io lo so, l'ho fatto. Hanno dovuto rianimarmi, due volte. E ho dovuto rianimare me stessa dalla merda che avevo in testa altre due volte. E sono la figlia di nessuno. Tu sei figlio di un Dio, e non c'è Dio che sappia quanto tempo ho passato a sperare che scompariste dalla faccia della terra e smetteste di causarci problemi. Cristo, vi ho odiato. Quindi prendilo come un voto di fiducia: ti conosco poco. Ma preferirei non scomparisti dalla faccia della terra."
Soffia tra i denti un sorriso nervoso, sbuffato, privo di felicità. Si sfiora la fede che porta all'anulare, piano. Schiude le labbra per dire qualcos'altro, forse, ma il rumore di qualcuno che in fondo al corridoio chiede di Maximilian Lee la convince ad alzarsi. Con le dita, sfiora il bordo del materasso sottile, passandoci affianco. Poi, con la massima discrezione, esce dalla stanza, dirigendosi verso le scale piuttosto che agli ascensori.

half measure


Il sangue che ti lascia le vene è quello di generazioni di donne gigantesche e uomini troppo minuscoli per tollerarne il peso. Le prime, le tue antenate, nacquero, ma non sei sicura da chi: forse da uomini presi liberi dalle coste occidentali dell'Africa francese e trascinati schiavi nella terra di tutte le opportunità, o forse dagli stessi schiavi haitiani trasportati nelle piantagioni come merce. Vai indietro duecento anni, e quel sangue che stai perdendo appartiene a un uomo che si è rivoltato ai massacri dello zucchero per essere poi represso, braccato come un animale, decapitato dopo un processo sommario, la sua testa esposta a monito. Due secoli pieni, due secoli pieni più tardi i tuoi fratelli sono stati abbattuti come cavalli zoppi. La tua sopravvivenza è un miracolo, la tua stessa esistenza è incomprensibile, inspiegabile: dovresti vergognartene. Cosa sei?

Non sei niente, sei una mezza misura. Una combattente mediocre, una leader insufficiente, un'amante infedele, una figlia e una sorella lontana, una soldatessa insubordinata. Una mulatta, che tu lo voglia riconoscere o meno, che ha dimenticato da dove viene, resa pigra da un uomo troppo indulgente e un buono stipendio in una città piena di locali alla moda; pronta a firmare contratti, mutui, scrivere regole e farle applicare, come se fosse una tua prerogativa. Ma tutto torna alle sue radici quando sanguini: recuperi prospettiva, vedi che nulla di tutto questo ha alcun valore, non ce l'ha mai avuto, è di carta sottile e uno solo gesto può strapparlo in due. 

Perché il cerchio si chiude e tu sei solo un'impostora. Questo non è il tuo posto, questa vita non è la vita che avresti dovuto condurre, la casa che comprerai non è casa tua. Mostri che generano mostri che combattono mostri ma le tue fauci sono solo denti, i tuoi artigli solo unghie, il tuo esoscheletro solo pelle mista, il tuo cuore solo un muscolo che ti verrà strappato dal petto, come hanno promesso. I tuoi sogni, da oggi in poi, sono solo gli incubi che i tuoi nemici ti hanno regalato. La rabbia e il risentimento invece non te li ha piantati nel cervello nessuno: sono sempre stati lì, arpionati alle viscere prima che alla testa. Fanno parte del tuo set genetico non meno degli occhi a mandorla e una leggera propensione alla tossicodipendenza. Hai pensato di essere la persona che si ustiona le braccia dalle mani ai gomiti per salvare una sola persona. Quella che si sacrifica per eliminare una minaccia divina. Quella che rinuncia alla vendetta in cambio della Legge.

Ma cento buone azioni non ne cancellano una cattiva. E quindi sei ancora la donna che ha gettato un borsone nero nel Mississippi e l'ha guardato andare a fondo. E sei, irreparabilmente, la stessa persona che ha permesso e incoraggiato la tortura di un diciassette innocente in un campo carcerario al confine di Israele. 

- - -
"Cosa vuol dire Osley?"
"Il suo vero nome è Camp Oysleyz. E' Yiddish, vuol dire: redenzione."

I like it when you drive


"Non pensavo avresti avuto il coraggio di rifarti più viva, Rebecca". Lei sospira a fondo e prende dalle sue mani il bicchiere di cognac che le porge. E' seduta sul bordo di un divano grande, alla sua sinistra una parete scoscesa interamente di vetro da cui filtra il buio della notte. Casa di Michael Green è fatta di linee spioventi e tinte futuristiche, arredamenti essenziali, un bel pianoforte che lui sa suonare alla perfezione. "Avevi ragione tu, l'ultima volta ero ubriaca. Non sarei dovuta venire qui. Scusami". Michael versa per sé un whisky liscio e non finge di non aver visto l'anello di fidanzamento che indossa. "Suppongo tu non sia venuta qui a riprendere il discorso", con un sarcasmo asciutto, infelice. Rebecca sorride. "No. Ho un favore da chiederti". 

"Riguarda il tuo fidanzato?"
"Sì."

Michael è un tipo intelligente, ma ha smesso da anni di felicitarsi ogni volta che ha ragione. Invece soffia tra i denti un sorriso amareggiato e incredulo. Pieno dei fumi dell'alcol.

"Ora io ti risponderò di no, e tu mi risponderai che te lo devo."

Rebecca rimane in silenzio, con il bicchiere in mano e i gomiti sulle ginocchia. Con gli occhi lo segue muoversi stizzito, poi lasciarsi ricadere seduto sulla poltrona di fronte a lei. 

"Ma io non ti devo niente, Direttrice King. Non sei una mia superiore, né lo sei mai stata. Non ti ho mai fatto torti, solo il mio lavoro. E se ora non sei in una prigione militare è probabilmente grazie a me. Se ora sei viva, e ti senti una persona migliore, è perché hai avuto occasioni che senza di me non sarebbero mai state possibili. Quindi non ti devo niente."

Rebecca rimane in silenzio, gli occhi bruni gli premono nei suoi come la punta di un fioretto spinta in avanti con costanza. 

"Non ho bisogno della tua amicizia, né del tuo perdono. Di sicuro non di qualsiasi bolo nero di sentimenti e segreti che avevamo ai tempi di Israele. Sei sempre stata una disonesta. Mi hai usato per non pensare a quello che stavi facendo, e io lì, come un idiota, a darti corda. E ora vieni qui, a chiedermi aiuto. Dopo tutto questo."

Lo sguardo è pieno di buio infetto, contagioso. La sicurezza di Rebecca si infrange come il bicchiere che lui schianta contro il muro di vetro. Lei, presa di sorpresa, trasale. Se non sembra spaventata, sembra di sicuro piena di stupore. Di indecisione, una volta tanto. Rimane sul bordo del divano, mentre guarda Michael riprendere pian piano il controllo su se stesso. Un funambolo che è scivolato nel vuoto. Un inciampo, una mano sola a reggerlo alla corda su cui prova a risalire.

"Avanti", la implora poi, senza il coraggio di alzare la testa. Rebecca tentenna, poi lui ripete più forte: avanti.

"E' tornato da una missione con le Forze Speciali da poche settimane, i fascicoli sono sotto segreto. So che era stato selezionato per neutralizzare un telepate che aveva già fatto parecchie vittime, e che era in Siria. Ma nulla di più. Puoi scoprire cosa gli è successo?"

Michael scuote il capo, lo oscilla, lo ruota. Guarda nella notte. 

"Cosa ti fa pensare che gli sia successo qualcosa?"
"Lo so e basta."
"Se è sotto segreto dubito riuscirò a scoprire qualcosa."
"Ma puoi provare?"

Michael rimane in silenzio. Sospira a fondo. Rebecca sospira a sua volta. Poggia il cognac e si alza in piedi.

"Grazie."
"Deluderai anche lui. Lo sai già. Come hai deluso me."

Rebecca sorride, si sfiora il fianco dove le sembra di aver ricevuto la stoccata. Asciuga il sangue e soffia via il dolore, come le hanno insegnato. Non se la prende, come le hanno insegnato.

"Se ho smesso io di vivere nel passato, magari puoi farlo anche tu", si congeda. Disingaggia e se ne va prima di dargli un'altra occasione di bucarle la pelle. Esattamente come non le hanno insegnato.

- - -

"Ora guida. Mi piace quando guidi."


it's time for you to go


Quando bussa alla sua porta, Michael le apre. E' convinta fino all'ultimo momento di star facendo uno sbaglio, ma i piedi le rimangono comunque incollati di fronte l'uscio, e poi oltre, attraverso l'ingresso e poi nel soggiorno. Dovresti tornare a casa tua, dice lui, perché? deve chiedergli lei, ma ha già un paio di idee in mente. Perché sei stanca e turbata e ubriaca. Rebecca sorride piano. Non sono così ubriaca, ed è vero, non lo è. Cosa pensavi di me quando ero nelle Special Forces? Lui è a casa sua ma non sa dove mettersi. Rimane in piedi di fronte a lei, sul divano. Pensavo che eri un soldato molto bravo. Lei scuote il capo, e poi cos'altro? 
Pensavo che le persone come te mi facevano paura, che eri pericolosa. E lei: perché? Perché a quelli come voi l'esercito ha insegnato a svuotare la testa di tutto l'inessenziale e nell'inessenziale lasciavi andare anche l'essenziale, il motivo per cui eravamo lì. E poi per Osley, dopo che ho saputo di Fayyad, e ho visto i video, e ho scoperto che erano state istruzioni tue, la tua mano, il tuo target. Lei risponde: Salim non era il mio target. Salim era un ragazzo. Me lo ricordo, risponde lui, e alla fine le si va a sedere accanto.
Ci sto provando, dice lei pianissimo, come in una preghiera. Sto provando a fare il tuo ruolo. E' un ruolo ingrato, e solo, e mi sta bruciando tutti i ponti. Non ho più niente di mio, non un angolo, il lavoro ha ingoiato ogni cosa. Michael sorride e le bacia la fronte. Lei gli bacia la bocca, lui esita ma alla fine non si allontana. Sospira ad occhi chiusi. Dovresti tornare a casa tua, ripete. Me ne andrò se me lo chiederai tre volte, e sei già a due. Michael scuote il capo: quello che cerchi non è mai stato qui, soldato King, le prende le mani per fermarle, gliele chiude tra i suoi due palmi. Solo compagnia, promette lei, e lui scuote di nuovo la testa, redenzione, la redenzione non è mai stata qui, non sono io a poterti perdonare. Rebecca oscilla il capo pigramente, impaziente: io arrivo fin qui, non so andare oltre Michael, questa è la versione migliore di me. La versione migliore di me è un'isola, una zattera in una tempesta, la versione migliore di me ha il venti percento del corpo ustionato e la pelle fatta d'aghi. Si baciano di nuovo, si cercano, si ritrovano finché Michael prende un respiro profondo, prende un respiro doloroso e addolorato e preme la fronte contro la sua, e dice piano sei stanca, turbata e ubriaca. Ne parleremo domani, ne parleremo bene. Rebecca vorrebbe tappargli la bocca, ma alla fine glielo lascia dire per la terza volta: dovresti tornare a casa tua. Sfiata una risata esausta dalle labbra e si rimette in piedi, di inietta le mani nei capelli, si riallaccia il giacchetto. Sì, si dovrei. E' l'ultima cosa che gli dice, poi imbocca la porta. In ascensore pensa di chiamare sua madre, ma si rende conto che è troppo tardi. E' troppo tardi per chiamare chiunque.

- - -

Marshall Rankin le dice: è un peccato, mi ci stavo affezionando a te. Lo guarda andare via, pensa di doversi abituare a vedergli solo la schiena. Pensa ancora, a ogni cosa, alla rapidità con cui le ha voltato le spalle e pensa che tutto sommato non ci ha creduto mai, nemmeno per un secondo. O forse per quel secondo soltanto, ma quanto può valere? A niente, si risponde. Non vale proprio a niente.



What if I said I would break your heart?
What if I said I have problems that made me mean?
What if I knew I would just rip your mind apart
Would you let me out?
Maybe you can stop before you start
Maybe you can see that I just may be too crazy to love
If I told you solitude fits me like a glove
Would you let me out?

You ought to know where I'm coming from
How I was alone when I burned my home
And all of the pieces were torn and thrown
You should know where I'm coming from

What if I said I was just too young?
What if I said I was built on bricks of carelessness and crumbs
What if I said I'd be gone before I could come
Would you let me out?

Your sought out ways
My own, my own
But you turn me away from my low blows
Boy, you should've known.

extraordinary things


"E l'unica cosa che a lei veramente dà fastidio è che ci possono essere, là fuori, persone che non hanno passato la vita in un monastero d'addestramento e che riescono comunque a fare cose straordinarie."
 Rebecca King entra nelle Special Forces prima dei vent'anni. Ha già fatto il suo tempo nell'esercito e si è distinta per i suoi punteggi. La prima cosa che i Green Berets le chiedono di fare non è però combattere, ma studiare. La mettono di fronte ai libri, la costringono a imparare l'arabo in maniera dignitosa e a pensare prima di agire. Prendono un cane irrequieto e gli chiedono di suonare il pianoforte. E quello lo fa. Rebecca lo fa. Impara, assorbe, si costringe ad essere la versione migliore di se stessa. Per dimostrare che può farlo. Che il suo passato non è il suo destino.

Anni dopo Michael Green bussa alla sua porta con due militari che le piantano un paio di manette attorno ai polsi. Lei si agita come quella creatura irrequieta che è state, e mentre la portano via cerca Michael con gli occhi. Lui le dice che andrà tutto bene. Lei gli chiede: che hai fatto? Poi lo urla: cosa hai fatto, Michael? Altri due membri del suo gruppo vengono trascinati via con lei. Tenuti in celle separate, non comunicanti. Ce li lasciano ventiquattro ore prima di farli uscire. In quelle ventiquattro ore, Rebecca sente nelle viscere che c'entra Osley, in qualche modo. Ma ancora non ha rimorsi, o sensi di colpa. Si sente solo tradita. Ma si sente nel giusto. 

Si sente nel giusto perché pensa di essere esattamente questo: eccezionale. Capace di cose straordinarie, anzi: nata per cose straordinarie, e per questo autorizzata a perseguire gli obiettivi che le vengono assegnati con tutti i mezzi a disposizione. Le ci vorranno mesi per capire che violare leggi internazionali non la rende migliore. La rende sono una criminale. Se l'è ripetuta davanti a uno specchio: criminale. Ci si è chiamata mentre si toccava la faccia e si chiedeva se era questo l'aspetto di una criminale. Mentre si asciugava i capelli. Mentre si lavava i denti. Mentre indossava la divisa.

Quando l'hanno promossa a Direttrice e le hanno detto che è la più giovane incaricata di tutta la costa orientale, l'ha sentito di nuovo: quel senso di eccezionalità. La pretesa di essere destinata a cose straordinarie. E' riuscita a spaventarsi da sola. Si è chiusa in un bagno per vomitare, e quando ha avuto un weekend libero ha dormito per due giorni di fila, sperando che le coperte del letto potessero nasconderla. Tanto Lucas non c'era. Non poteva vedere.

Lucas non sa. Quando torna a casa alle quattro del mattino con l'odore di margarita addosso, non le fa domande. Prova ad abbracciarla, ma lei gli sfugge sollevando le braccia fasciate, usando quelle come scusa. Lui non prova a chiederle cosa è successo: sa già che lei non può dirglielo, e non potrà dirglielo finché non rientrerà in servizio. Questione di pochi giorni. Poche settimane, al più - Rebecca lo osserva dormire e si chiede se, senza il lavoro condiviso, potrebbero resistere. Si sistema al lato, come se al centro del letto ci fosse un solco. Due placche che il terremoto allontana. E poi Lucas non sa. Lei si consola dicendosi che non ha voluto sapere. Di Osley, certo, né di quello che ha fatto per 'Dre, di cosa conserva il letto del Mississippi. Se lo sapesse, lo perderebbe. Se sapessero, non ci sarebbe pozzo sufficientemente profondo in cui gettarsi per non farsi raggiungere dal loro disappunto. 
"Se non te lo chiedo, è perché hai ventisei anni e sei arrivata all'apice della tua carriera. E non ho alcun diritto di sapere perché fai quello che fai."
Da adesso in poi si può solo cadere. Rebecca spalanca le braccia ustionate per stare in equilibrio. Se lui non ha fatto la domanda, lei ha comunque pensato alla risposta. Perché è lì? Il fuoco le ha sciolto la pelle e con la pelle i tatuaggi. I nomi dei morti. Le scaramanzie dei vivi. Tariq e Jamal li ha tatuati 'Dre sui suoi polsi, e lei li ha tatuati a lui. Adesso che sta facendo le valigie per portare la sua famiglia il più lontano possibile da lei, Rebecca si chiede se non li dimenticherà tutti. E se loro non dimenticheranno lei.


When I was a child, I heard voices
Some would sing and some would scream
You soon find you have few choices
I learned the voices died with me

When I was a child, I'd sit for hours
Staring into open flame
Something in it had a power,
Could barely tear my eyes away

All you have is your fire.
And the place you need to reach -
Don't you ever tame your demons
But always keep 'em on a leash

When I was 16, my senses fooled me
Thought gasoline was on my clothes
I knew that something would always rule me
I knew the scent was mine alone

When I was a man I thought it ended
When I knew love's perfect ache
But my peace has always depended
On all the ashes in my wake.

the only life I'll ever get


Cosa faresti con le altre vite? Diciamo che puoi viverne altre due.

Risponde a Marcus che in una studierebbe. La vivrebbe con agio, sui libri fin dall'infanzia. Andrebbe al college e magari poi continuerebbe a studiare, specializzandosi in qualche materia che le garantisse un buon lavoro e una paga sufficiente a tutelare se stessa e tutta la sua famiglia dalle incertezze della povertà. Ha vissuto inverni interi senza riscaldamento, senza soldi a sufficienza per mangiare più di due volte al giorno. Quando la caldaia si ruppe si lavarono per due mesi con l'acqua fredda, finché ad Andre non venne in mente di cercare nella pagina dei necrologi dei giornali e andare a rubarla dalla cantina di un morto fresco, che non ne avrebbe più avuto bisogno. Hanno tutti spacciato, chi prima e chi dopo. Hanno fatto ogni singolo lavoro che il loro quartiere offrisse, tutti prima dei diciott'anni. Alla ricerca di una via d'uscita dalla miseria in cui erano nati, già in catene prima di imparare a camminare, alcuni di loro sono anche morti.

Hanno sbagliato qualcosa, tutti loro. Con la terza vita farebbe tutto ciò che ha già fatto, ma correggendo gli errori. Tutti quelli correggibili, almeno. Riempirebbe Tariq di botte fin da piccolo, invece di lasciare New Orleans rimarrebbe a controllarlo crescere, tenendolo per la collottola fuori da tutte le spirali che lo hanno trascinato verso il basso e l'hanno gettato tra le braccia ipertrofiche di un uomo in maschera. Impedirebbe ad Andre di infilarsi nei giri in cui si è infilato, e una notte più delle altre lo avrebbe legato mani e piedi per impedirgli di andare a Baton Rouge. A Jamal insegnerebbe a tenere sempre le mani bene in vista. A non alzare il cappuccio della felpa sulla testa, forse a rimanere nel suo ghetto, a tenersi lontano dai quartieri bene, dalle case a schiera che partoriscono i mostri della loro società. Poi raddrizzerebbe i suoi errori. Si terrebbe lontana da Osley. Prima di quello, si terrebbe lontana da Baton Rouge. Prima ancora, chiederebbe ad Antoine - l'unico uomo che abbia mai provato a farle da padre - di aver paura della tempesta, ma soprattutto di aver paura degli uomini nella tempesta, di ciò che possono diventare. Lo supplicherebbe di restare a casa.

Se avessi una figlia come te, le confessa Marcus mentre le accarezza la testa, le direi che sono fiero di com'è. Di continuare ad essere irrequieta e di volere non tre vite ma anche dieci. Le direi che qualsiasi errore ce lo portiamo dietro, ma di diminuirne il peso.

Antoine gli somigliava? Se lo chiede mentre ingoia il nodo che le stringe la gola. Non tre vite, ma anche dieci - ma Marcus Dansi è un mezzo dio e può pretendere tutte le vite che desidera. Lei ne ha a disposizione solo una, e non abbastanza tempo perché gli errori che ha fatto possano pesarle di meno sulle spalle. Si mettono in fila e ballano sulla sua schiena ogni notte, tenendola sveglia. Le sibilano dietro i timpani, direttamente tra le tempie, che ha perso ogni diritto di sentirsi leggera il giorno in cui i suoi errori hanno distrutto delle vite che non appartenevano a lei.

Neanche una.


all about politics


"Era una recluta - recita Madsen, capitano del Team White, mentre legge compostamente dal suo forcepad il curriculum di Harold Preston - appena uscito dall'accademia speciale, ventitré anni." 
Rebecca ascolta con sguardo vuoto, mentre un medico le rimuove con cura dal braccio gli aculei piantati nella carne. Il rush di adrenalina è passato da un po', e adesso sente il dolore fino alle ossa. Lo tollera in silenzio, sapendo di meritarselo. Madsen la guarda dall'alto verso il basso, chiedendosi se l'abbia sentito. Ha una lunga storia nell'SCF, ma per la promozione si è visto passare avanti una ragazzina che ha passato la maggior parte della sua carriera nelle Special Forces, nota in patria perlopiù per aver incassato qualsiasi temibile scontro senza essere ancora morta. Con la sorpresa dei più. Tutta colpa dell'affirmative action, ha detto Madsen più volte ai suoi colleghi: cazzate politiche, ha insistito, per poi argomentare che giuro su Dio, non c'è niente di peggio in America, al giorno d'oggi, che essere un maschio bianco eterosessuale. Molti hanno annuito. Insomma: del resto ha solo ventisei anni.

"Ne hai ancora molto? Possiamo andare a notificarlo alla famiglia insieme, sua madre vive a mezz'ora da qui."
"Tra un quarto d'ora avremo finito", anticipa il medico, mentre Rebecca storce le labbra, cercando una messa a fuoco per gli occhi pieni di un sospetto malato, attento. 

Ha sentito le voci anche lei - lo scontento. Come se non bastassero gli attacchi esterni. I Phoeni-X, e i Night Soldier. Come se non bastasse Sheridan Hoover e il suo desiderio di fare giustizia da solo, in maschera. Come se non esistesse il Syndicate e il locale distrutto di Schreber, di cui vorrebbe cercare la solidissima sicurezza, le convinzioni incrollabili, e che invece si ritrova a evitare per non dovergli dare una risposta alla sua domanda. Ricostruire? Sì: ma si presterebbe a un nuovo attacco, forse più violento, sanguinoso, in piena apertura. No - ma allora in quel caso vincerebbero loro o, peggio ancora, penserebbero di aver vinto. E lei dovrebbe pensare di aver perso. La mattina si sciacqua il viso con acqua gelida per cercare di riassorbire le occhiaie. La notte si rigira nelle lenzuola, e quando sogna Osley ci mette dentro anche la sua vita di Philadelphia. Quella che ha voluto crearsi per lasciarsi alle spalle Israele e il fondo del Mississippi. 

"Quindi vieni?", insiste Madsen. Perché Madsen insiste. Rebecca gli spinge addosso un'occhiata acuminata. Forse sa. Sa che la morte di Preston è colpa sua. Sa che se Rebecca avesse sparato subito, senza dare per la seconda volta l'ordine di buttarsi a terra e arrendersi, Harold Preston sarebbe ancora vivo. Legalmente era obbligata a farlo una sola volta. Ha voluto ripeterlo perché dietro la minaccia ha voluto vedere non un criminale, ma un ragazzo con in testa il cappuccio di una felpa. Un ragazzo che aveva fatto una cazzata e voleva solo scappare e non farsi rovinare la vita.
"No."
"No?"
"Prendi Grossman, è bravo in queste cose."
"Potrebbero voler sentire la storia intera... Grossman non era lì quando è successo, King."
I muscoli delle labbra le si muovono in un cenno aspro che ha lo scheletro di un sorriso sardonico. Pianta gli occhi addosso a Madsen.
"Vicedirettrice King, agente incaricato Madsen. Cosa non ha capito dei miei ordini?"
Madsen trasale. E' un uomo abituato a risolvere i contrasti con le nocche, e non poterlo fare gli lascia addosso l'impressione di una caduta libera. Rebecca continua a fissarlo in attesa di una risposta.
"No ma'm. Tutto chiaro."
"Bene. Può andare."
Madsen sillaba inudibilmente la parola troia non appena esce dall'ambulatorio. Rebecca si trascina il palmo buono sulla faccia e torna a guardarsi le ferite in via di sutura. 
"Quindici minuti, ha detto?"
"Sì, quindici minuti."
"La prossima volta se lo tenga per sé."

if this fear gets the best of me


- Oh  shit. Oh, shit, ooo-oh shit.
Rebecca è fuori dal proprio corpo. Si sporge sul suo corpo-vero e geme senza che nessuno possa sentirla. Un medico le preme i palmi contro il petto per farle riavviare il cuore, ma le macchine continuano a mostrare una linea piatta. I suoni sono più distanti, Lucas sembra terrorizzato. Lei urla al medico di fare qualcos'altro, di provare qualcos'altro. Si infila le mani nei capelli e piange. Qualcosa la strappa da quel piano d'esistenza e la riporta violentemente nel proprio corpo. Il dolore è lancinante.

Chiede a Lucas di andare a prenderle una cioccolata calda. Non appena è sicura che lui si sia richiuso la porta alle spalle, si toglie di dosso il lenzuolo e si guarda le gambe. Le colpisce con la poca energia che ha, senza pazienza si aspetta di muoverle, ma non ci riesce. Quando la mattina dopo Michael aspetta che Lucas se ne sia andato per tornare a trovarla - mentre è cosciente, questa volta - lei gli lancia contro un vaso di fiori e gli urla che nulla di tutto questo sarebbe successo se si fosse fatto gli affari suoi su Osley e su tutto quello che è successo dopo l'attacco all'ambasciata. Che se come si combatte la guerra gli fa così schifo, poteva restare a disegnare power shell nel suo palazzo.

Marcus Dansi le prende i piedi tra le mani e, mentre li muove, le racconta una storia. Lei lo guarda e pensa che vorrebbe anche lei essere diversa dagli altri, divina. O semidivina: semidivina le basterebbe. Avere più tempo sulla terra ed essere sufficientemente forte da poter difendere quel tempo. Il giorno dopo Iris Carter la chiama per dirle che il mondo sta per finire. Prende un respiro profondo e mentre un'altra mezza divinità le ricorda che è in grado di essere più rapida di qualsiasi agente a sua disposizione, lei deve aiutarsi con un paio di pesanti stampelle per uscire dall'ascensore che l'ha portata al piano terra dell'ospedale, e rischia di inciampare due volte.

Mentre suo fratello lotta contro il panico, trascina un borsone pesante fin sull'orlo di una sponda di cemento, poi la suola solida degli anfibi lo spinge e lo fa affondare nel Mississippi. Sei anni e mezzo dopo apre gli occhi lentamente e trova Lucas addormentato seduto, accanto a lei, con il viso affondato nelle braccia conserte poggiate sul materasso. Gli accarezza i capelli piano, per non svegliarlo. E' un uomo anche lui - solo un uomo. Nessuno di loro due sarà mai nient'altro. Possono solo fare del loro meglio con ciò che gli è stato dato.

nothing will ever grow on this ground


Lucas se la spinge dietro di sé. Rebecca non capisce subito cosa stia succedendo: si sono rincorsi lungo tre piani di scale, si sono trascinati addosso mani e risate e dieci passi dalla porta lui l'ha strattonata per ripararla. Lei si sporge dall'altezza del suo gomito e capisce perché si è allarmato: un uomo con uno sgualcito completo nero è seduto per terra, con la schiena contro la sua porta. Quando lo chiama per nome, incredula ("Michael?") Lucas si calma e si cruccia. 

Michael ha più di trent'anni e meno di quaranta e indossa un occhio livido e un labbro spaccato con una certa eleganza. Solo il vestito che porta deve costare come un mese dell'affitto di quel buco nel Southside sulla cui porta ha aspettato. Ha un velo di barba e i denti dritti e candidi di chi è cresciuto con un'assicurazione sanitaria costosa, al polso sinistro un Omega da quattromila dollari (Rebecca lo sa perché una volta glielo ha chiesto) e quando si alza lo fa lentamente, come se dovesse stare attento a qualcosa che gli fa male tra il costato e i polmoni. Il primo istinto di lei è andargli incontro e sorreggerlo, ma Michael guarda Lucas e lei si ferma a metà strada. 
- Stai bene?
- Possiamo parlare da soli?
Lucas sembra farsi un po' più alto, con spalle un po' più larghe. Rebecca ha le scuse annidate all'angolo degli occhi, e gli promette che lo chiamerà domani. Lo sente scendere gli scalini rapidamente. Poi si caccia le chiavi dalle tasche e apre la porta di casa sua.

- - -

- Non sapevo fossi tornato negli Stati Uniti.
- Lo conosco?
- Forse. Era nelle Forze Speciali anche lui. 
- Secondo te ha riconosciuto me?
- Non lo so. Ti sei tolto il casco con molte persone, in Siria?
Michael è tutto tranne che stupido. Qualcuno direbbe che è una delle persone più intelligenti del paese. E' stato il più giovane afroamericano iscritto alla Mensa, ha conseguito una laurea e un dottorato in ingegneria spaziale e i brevetti alcuni dei suoi progetti sono stati venduti per milioni di dollari ad alcune delle maggiori multinazionali del settore. 

E' stato anche parte della squadra corazzata affiancata alle Special Forces in Medioriente, quelli che nelle camerate venivano chiamati le tartarughe: un intero gruppo di assaltatori addestrati all'uso delle Power Shell più all'avanguardia dell'intero esercito americano, equiparati negli scenari di guerra a ciò che i Guardiani sono all'interno dei confini nazionali. Lui e Rebecca si sono conosciuti così.
- Mi dispiace non averti sentito prima. Sono tornato da un po'.
- Non importa.
- A mia discolpa, non pensavo che di tutto il paese, ti avrei trovato proprio a Philadelphia.
- Neanche io.
- Io sono di Philadelphia.
- Credevo saresti rimasto oltreoceano per un altro bel pezzo, tutto considerato. O che non avresti avuto la faccia di venire a cercare me.
Rebecca si siede sul divano vicino a lui e gli poggia una busta di piselli surgelati sulla faccia, in corrispondenza dell'occhio annerito. Lui piega le labbra in una smorfia addolorata, tende tutti i muscoli ma poi si rilassa lentamente, come una bestia selvatica che ha bisogno di essere tenuta ferma a pieni muscoli prima che si calmi. Lei gli lascia la busta sulla faccia. Rimangono in silenzio per un po'.
- Parli come se fosse stata colpa mia.
- Mi sono addormentata e risvegliata in un mondo in cui non mi sei costato la carriera nelle Forze Speciali?
- Tu ti sei giocata la carriera nelle Forze Speciali, Rebecca.
- Magari avresti potuto essere un po' più comprensivo, tutto considerato.
- Bastavi tu ad essere indulgente con te stessa. 
- Non sai di che parli.
- So che quando è uscito fuori tutto--
- Quando tu hai fatto uscire fuori tutto.
- ... Quando è uscito fuori tutto avevi un sacco di scuse per te stessa.
- Non tutti nascono con la camicia, Michael. Gli errori capitano se non hai soldi a palate per aggiustarli e un Q.I. sovraumano.
- Non è stato un errore.
La voce dell'uomo si abbassa di un tono, sembra arrivargli direttamente dal centro del torace e rimbombare tra cuore e costole prima ancora di arrivare alle labbra.
- E' stata una condotta criminale e dolosa che è andata avanti per due anni prima che accadesse l'irreparabile, e tu hai concorso agli eventi, Rebecca. Mi sono esposto per te. Saresti potuta finire di fronte a una corte marziale piuttosto che congedata senza neanche un demerito nel curriculum. 
- Cosa vuoi, Michael?
Rebecca sorride, negli occhi scuri si annida un'amarezza antica. Lui sospira a fondo. Lascia i piselli surgelati sul cuscino del divano.
- Ti ricordi quando... progettavamo di lasciare l'esercito, venire qua a Philadelphia e registrarci come vigilantes... insieme?
- Le cose sono cambiate, non credi?
- Nondimeno... c'è qualcosa che vorrei condividere con te. Se mi permetti di mostrartela. Domani mattina?
- Domani mattina lavoro.
- Puoi prenderti qualche ora libera.
- Perché vorresti lavorare con me, comunque? Dopo Osley...
- Perché mi piace pensare che tu valga di più della somma delle tue colpe. 
Rebecca sta per rispondere, ma poi gli occhi le precipitano verso il basso. Michael sospira a fondo e, con qualche difficoltà, si alza in piedi. Zoppica pesantemente fino all'uscita, senza controllare il suo orologio da quattromila dollari. Si ferma sulla porta poco dopo averla aperta. Si volta, alleggerisce il tono di voce.
- E' tanto meglio di me?
Rebecca tira su col naso e si trascina la manica sugli occhi, e solo allora è pronta ad alzare la testa e metterlo a fuoco. Gli rivolge un sorriso tutto diverso, pieno di veleno dolcissimo.
- Non mi ha ancora rovinato la vita, quindi... direi di sì.
Michael ride molto piano, annuisce. Poi si trascina oltre l'uscio, chiudendosi gentilmente la porta alle spalle.

shout out forgiveness at the top of your lungs


Puoi girare in tondo quanto ti pare, Reba, lo vedo anche io che non stai andando da nessuna parte. Ha la voce di Jamal piantata in testa, la voce di Jamal che non credeva in nessun riscatto ma un riscatto l'ha cercato lo stesso, di nascosto. Un passo a destra e uno a sinistra, Roe le disse così al funerale di Tariq, come se avesse dimenticato come funziona un funerale a New Orleans: tutti in fila dietro la front line - un passo a destra e uno a sinistra, ma sempre in avanti. Ha tenuto buono il consiglio ed è andata avanti, nonostante sua madre le abbia detto che i King fuori da New Orleans sono destinati al disastro, è andata avanti (perché indietro non poteva andarci) ed è andata a nord, e ora nelle mura di Philadelphia gira in macchina la Old City, da sola, contro ogni protocollo dell'Agenzia nella ridicola speranza di trovare gli assassini, combatterli, vincerli, arrestarli. Redenzione, Anna Berninger ha detto così - e non sapeva che lei per prima aveva pronunciato le stesse sillabe, nello stesso ordine, solo poche settimane prima a Lucas Black, sui gradini umidi di casa Welsh. Redenzione è ciò che è venuta a cercare a Philly, ma sono passati quasi due mesi e non ha ancora salvato la vita a nessuno, fatto giustizia per niente.

Redenzione. Continua a cercarla nelle braccia di Lucas scoperte una spanna di carne alla volta, e teme il momento in cui non ci sarà più niente da scoprire. Pelle bollente diventa giaciglio tiepido, e nel tepore si conosce già irrequieta, terrorizzata da tutte le cose che potrebbero andare storte, da tutti i segreti che le scalciano gli stinchi e la fanno cadere in ginocchio non appena lascia loro briciole di tempo. Non vuoi conforto perché sai di non meritartelo le ha detto Michael, e Dio se aveva ragione. Nelle Forze Speciali era più facile, c'erano ordini non questionabili, direttive precise, scadenze secche, letti ordinati e rigore di vita. I soldati vengono valutati sull'attinenza agli ordini, e lei è stata capace di essere ben più che zelante nell'eseguirli. Adesso è diverso. Adesso le persone con cui lavora fanno quel che fanno perché guidate da un fuoco sacro, un senso della giustizia arpionato al cuore - Bennet, Schreber e anche Lucas -, e lei è terrorizzata dall'essere scoperta per la persona che è stata, che ancora è: una ragazzina che non sa niente, non sicura di niente, che a dodici anni rubava e a quattordici è stata beccata a spacciare per pezzi più grossi di lei. La figlia di una voodoo queen non registrata, con due fratelli morti e uno in prigione, con la coscienza piena di macchie e un'integrità morale che deve ricompattare ogni due giorni, perché altrimenti sa che franerebbe. La poveraccia superstiziosa che mette offerte per i Loa sotto il tappeto dell'ingresso, sia mai andassero a bussare. La codarda che quando sente Martin Johnson riempire di botte Malia Johnson, nell'appartamento accanto, alza il volume della tv e fa finta di niente.

Ma se solo riuscisse a prendere questi due... solo questi due. Setaccia la Old City come se la sua vita dipendesse dal risultato della caccia. Le serve una vittoria, una soltanto. E' stanca di visitare scene di crimini già avvenuti: vuole sventare un crimine, catturare un criminale, salvare una vita. Vuole riscattarsi, vuole la stella sul petto che dimostri a tutti come anche lei sappia essere una brava persona, alla fine dei conti. Vuole poterlo dire a sua madre, vuole poterlo dire a Michael. Vuole poter seppellire Camp Osley una volta per tutte, senza rimanere chiusa nelle sue gabbie dieci e cento volte, ogni volta che chiude gli occhi o rimane da sola.

Diventa tardi troppo presto. Il suo turno è ormai finito da almeno due ore, ma non è ancora rientrata al Building. Ormai in riserva, accosta la macchina su Appleby Street e guarda le tende tirate di casa Welsh. Spegne il motore e sprofonda nel sedile, esausta, senza avere coraggio di uscire e andare a suonare. Rimane a riflettere su cosa fare finché non scivola in un sonno pesante, senza sogni. Un'ora dopo Lucas la sveglierà bussando al finestrino. Che coincidenza, mugugnerà tirandosi sulle labbra il solito sorriso da canaglia, come una vagabonda che batte i palmi sul portone di una chiesa per implorare asilo.