Visualizzazione post con etichetta southside. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta southside. Mostra tutti i post

he ain't back yet


Lo spettacolo notturno del planetarium ha entusiasmato 'Hild. Ne ha parlato senza sosta per mezz'ora dopo la sua fine per poi addormentarsi sui sedili posteriori della jeep. Quando arrivano a casa sua - che era casa di Reb e sul contratto lo è rimasta anche ora che ci vive un piccolo distaccamento di New Orleans - Rebecca la prende in braccio molto lentamente per non svegliarla, e poi se la porta per tre piani di scale. Suona il campanello un paio di volte prima che qualcuno le venga ad aprire. 

E' Garrika. Le sorride in silenzio e poi entra in casa, andando a depositare la bambina sul divano-letto aperto, accanto a suo fratello già addormentatosi con le cuffiette del cellulare alle orecchie. Garrika poggia una mano sulla spalla di Rebecca e le mostra il caffè ancora caldo poggiato sul tavolo. Vanno a sedersi in piedi, mentre Rebecca si guarda intorno alla ricerca di Andre, senza trovarlo.
- Non è ancora tornato -, Garrika ne indovina i pensieri.
- E' un po' che non lo vedo. Sta bene?
Garrika invece di rispondere china il capo. E' l'unica baby-mama della sua generazione ad aver fatto in tempo a sposare un King prima che morisse tragicamente. Andre se l'è vista brutta più di una volta, in vita sua, ma è riuscito a rimanere brillantemente aggrappato alla vita.
- A volte mi sembra che non sia mai davvero tornato, da quando è uscito di galera. Sono preoccupata e non so come aiutarlo. Non so cosa faccia là fuori.
Rebecca fa scivolare lo sguardo di lato, mentre gli organi interni le scricchiolano pericolosamente. Sa già come andrà a finire.
- Tu magari riesci a stargli dietro. Ha due figli, Rebecca, non voglio che finisca come...
Garrika si interrompe, per scrupolo.
- Come Jamal e Tariq?
- Non posso farcela da sola. Tu sei già stata molto generosa, lo so. Ti siamo tutti grati. Ma ho ancora bisogno di aiuto. Puoi aiutarmi?
Rebecca si stringe nelle spalle. Alla sua famiglia non ha mai detto di no.

home #3 - for a little while

1 gennaio 2024, New Orleans

Sulla soglia di casa, Tyonda King saluta sua figlia imponendosi di sorridere, nonostante il cuore minacci di scoppiarle nel petto. Alle sue spalle, sua madre Justine guarda severamente l'uomo bianco che sua nipote ha portato a casa. Ha la schiena dritta e le spalle allineate dei militari, combinate con un cipiglio ieratico da stregona. 
- Non le hai detto nulla.
- Non cambierebbe il corso degli eventi, mama.
- Dovrebbe rimanere qui.
- Lo sa. Ma non può. I morti la tormentano.
- I nostri morti la proteggono più di tutti i gris gris che possiamo donarle o le preghiere di salvezza che possiamo inciderle addosso.
- Ha bisogno di seguire la sua strada.
Justine scuote il capo e inspira a fondo, riempiendosi i polmoni di freddo.
- Dobbiamo parlare di tuo figlio.
- Di Andre?
- E' uscito tre mesi prima del suo tempo, Tyonda. Il giorno prima che uscisse hanno arrestato tutti i ragazzi dei Theroux. Sai cosa diranno.
Tyonda rimane in silenzio e osserva distratta la macchina che si allontana lungo la strada.
- Sai cosa accadrà -, insiste Justine.
- Lo manderemo via per un po', mama.
- Via da New Orleans?
- Chi è rimasto fuori della gente dei Theroux?
- Il figlio di Niquette Pascal ed entrambi i fratelli piccoli Sadine. 
- Lo manderemo via da New Orleans, solo per un po'. Per il tempo necessario.
Justine fissa il profilo di sua figlia per un lungo istante, poi annuisce. Non si dicono altro.

 - - -

18 Gennaio 2024, Philadelphia.
- Che vuol dire che ci lasci l'appartamento? -, chiede Andre sinceramente sorpreso. Rebecca rotea gli occhi al cielo.
- Checcazzo 'Dre, fatti due conti: voi siete quattro, io ho un monolocale con un letto doppio e un divano letto. Dove dovrei mettermi?
- Ti sei rincoglionita da quando hai iniziato ad avere due soldi in tasca? Per i ragazzini mettiamo i cuscini del divano per terra ed è fatta, che ci vuole. Mica si straniscono.
Garrika, passando, sgrana bene gli occhi e guarda suo marito con aria più che truce. Rebecca la rassicura con un cenno delicato della mano che riesce a muovere, facendola procedere.
- Va bene così, ho già spostato tutto.
- Dove?
- A casa di Lucas. 
- Del bianco?
- Sì, abbiamo deciso di vivere insieme.
- Col bianco. In una casetta a schiera dei sobborghi, magari.

Il sorriso molesto di lui si trasforma in una smorfia contrariata quando vede sua sorella guardare altrove, evadere la domanda.
- What the fuck, Bequette...
- Non chiamarmi Bequette. Per qualsiasi cosa comunque basta che mi chiamate e arrivo. L'affitto è pagato per i prossimi due mesi, per cui state tranquilli. Ti ho lasciato sul tavolo alcuni annunci di lavori part time per te e per Garrika, e le scuole per i ragazzini.
- Le scuole? Ma vanno a scuola a Magnolia...
- Sì 'Dre, cristo santo... non è che stanno in vacanza, devi mandarceli a scuola anche se resti solo un mese. E comunque ripasso domani per vedere come siete messi. Okay?
- Okay. Reba...
- Cosa?
- Sei sicura di questo Lucas?
- Perché, che ha che non ti piace?
Andre si produce in una smorfia malriuscita.
- Ha l'aria da sbirro. Sei sicura di conoscerlo così bene come credi, ah? 
Rebecca sorride piano, esausta. Sotto il cappotto, ha bendaggi che reggono insieme ferite ancora fresche.
- Sono abbastanza sicura, 'Dre. Ma grazie per esserti preoccupato. 

all about politics


"Era una recluta - recita Madsen, capitano del Team White, mentre legge compostamente dal suo forcepad il curriculum di Harold Preston - appena uscito dall'accademia speciale, ventitré anni." 
Rebecca ascolta con sguardo vuoto, mentre un medico le rimuove con cura dal braccio gli aculei piantati nella carne. Il rush di adrenalina è passato da un po', e adesso sente il dolore fino alle ossa. Lo tollera in silenzio, sapendo di meritarselo. Madsen la guarda dall'alto verso il basso, chiedendosi se l'abbia sentito. Ha una lunga storia nell'SCF, ma per la promozione si è visto passare avanti una ragazzina che ha passato la maggior parte della sua carriera nelle Special Forces, nota in patria perlopiù per aver incassato qualsiasi temibile scontro senza essere ancora morta. Con la sorpresa dei più. Tutta colpa dell'affirmative action, ha detto Madsen più volte ai suoi colleghi: cazzate politiche, ha insistito, per poi argomentare che giuro su Dio, non c'è niente di peggio in America, al giorno d'oggi, che essere un maschio bianco eterosessuale. Molti hanno annuito. Insomma: del resto ha solo ventisei anni.

"Ne hai ancora molto? Possiamo andare a notificarlo alla famiglia insieme, sua madre vive a mezz'ora da qui."
"Tra un quarto d'ora avremo finito", anticipa il medico, mentre Rebecca storce le labbra, cercando una messa a fuoco per gli occhi pieni di un sospetto malato, attento. 

Ha sentito le voci anche lei - lo scontento. Come se non bastassero gli attacchi esterni. I Phoeni-X, e i Night Soldier. Come se non bastasse Sheridan Hoover e il suo desiderio di fare giustizia da solo, in maschera. Come se non esistesse il Syndicate e il locale distrutto di Schreber, di cui vorrebbe cercare la solidissima sicurezza, le convinzioni incrollabili, e che invece si ritrova a evitare per non dovergli dare una risposta alla sua domanda. Ricostruire? Sì: ma si presterebbe a un nuovo attacco, forse più violento, sanguinoso, in piena apertura. No - ma allora in quel caso vincerebbero loro o, peggio ancora, penserebbero di aver vinto. E lei dovrebbe pensare di aver perso. La mattina si sciacqua il viso con acqua gelida per cercare di riassorbire le occhiaie. La notte si rigira nelle lenzuola, e quando sogna Osley ci mette dentro anche la sua vita di Philadelphia. Quella che ha voluto crearsi per lasciarsi alle spalle Israele e il fondo del Mississippi. 

"Quindi vieni?", insiste Madsen. Perché Madsen insiste. Rebecca gli spinge addosso un'occhiata acuminata. Forse sa. Sa che la morte di Preston è colpa sua. Sa che se Rebecca avesse sparato subito, senza dare per la seconda volta l'ordine di buttarsi a terra e arrendersi, Harold Preston sarebbe ancora vivo. Legalmente era obbligata a farlo una sola volta. Ha voluto ripeterlo perché dietro la minaccia ha voluto vedere non un criminale, ma un ragazzo con in testa il cappuccio di una felpa. Un ragazzo che aveva fatto una cazzata e voleva solo scappare e non farsi rovinare la vita.
"No."
"No?"
"Prendi Grossman, è bravo in queste cose."
"Potrebbero voler sentire la storia intera... Grossman non era lì quando è successo, King."
I muscoli delle labbra le si muovono in un cenno aspro che ha lo scheletro di un sorriso sardonico. Pianta gli occhi addosso a Madsen.
"Vicedirettrice King, agente incaricato Madsen. Cosa non ha capito dei miei ordini?"
Madsen trasale. E' un uomo abituato a risolvere i contrasti con le nocche, e non poterlo fare gli lascia addosso l'impressione di una caduta libera. Rebecca continua a fissarlo in attesa di una risposta.
"No ma'm. Tutto chiaro."
"Bene. Può andare."
Madsen sillaba inudibilmente la parola troia non appena esce dall'ambulatorio. Rebecca si trascina il palmo buono sulla faccia e torna a guardarsi le ferite in via di sutura. 
"Quindici minuti, ha detto?"
"Sì, quindici minuti."
"La prossima volta se lo tenga per sé."

nothing will ever grow on this ground


Lucas se la spinge dietro di sé. Rebecca non capisce subito cosa stia succedendo: si sono rincorsi lungo tre piani di scale, si sono trascinati addosso mani e risate e dieci passi dalla porta lui l'ha strattonata per ripararla. Lei si sporge dall'altezza del suo gomito e capisce perché si è allarmato: un uomo con uno sgualcito completo nero è seduto per terra, con la schiena contro la sua porta. Quando lo chiama per nome, incredula ("Michael?") Lucas si calma e si cruccia. 

Michael ha più di trent'anni e meno di quaranta e indossa un occhio livido e un labbro spaccato con una certa eleganza. Solo il vestito che porta deve costare come un mese dell'affitto di quel buco nel Southside sulla cui porta ha aspettato. Ha un velo di barba e i denti dritti e candidi di chi è cresciuto con un'assicurazione sanitaria costosa, al polso sinistro un Omega da quattromila dollari (Rebecca lo sa perché una volta glielo ha chiesto) e quando si alza lo fa lentamente, come se dovesse stare attento a qualcosa che gli fa male tra il costato e i polmoni. Il primo istinto di lei è andargli incontro e sorreggerlo, ma Michael guarda Lucas e lei si ferma a metà strada. 
- Stai bene?
- Possiamo parlare da soli?
Lucas sembra farsi un po' più alto, con spalle un po' più larghe. Rebecca ha le scuse annidate all'angolo degli occhi, e gli promette che lo chiamerà domani. Lo sente scendere gli scalini rapidamente. Poi si caccia le chiavi dalle tasche e apre la porta di casa sua.

- - -

- Non sapevo fossi tornato negli Stati Uniti.
- Lo conosco?
- Forse. Era nelle Forze Speciali anche lui. 
- Secondo te ha riconosciuto me?
- Non lo so. Ti sei tolto il casco con molte persone, in Siria?
Michael è tutto tranne che stupido. Qualcuno direbbe che è una delle persone più intelligenti del paese. E' stato il più giovane afroamericano iscritto alla Mensa, ha conseguito una laurea e un dottorato in ingegneria spaziale e i brevetti alcuni dei suoi progetti sono stati venduti per milioni di dollari ad alcune delle maggiori multinazionali del settore. 

E' stato anche parte della squadra corazzata affiancata alle Special Forces in Medioriente, quelli che nelle camerate venivano chiamati le tartarughe: un intero gruppo di assaltatori addestrati all'uso delle Power Shell più all'avanguardia dell'intero esercito americano, equiparati negli scenari di guerra a ciò che i Guardiani sono all'interno dei confini nazionali. Lui e Rebecca si sono conosciuti così.
- Mi dispiace non averti sentito prima. Sono tornato da un po'.
- Non importa.
- A mia discolpa, non pensavo che di tutto il paese, ti avrei trovato proprio a Philadelphia.
- Neanche io.
- Io sono di Philadelphia.
- Credevo saresti rimasto oltreoceano per un altro bel pezzo, tutto considerato. O che non avresti avuto la faccia di venire a cercare me.
Rebecca si siede sul divano vicino a lui e gli poggia una busta di piselli surgelati sulla faccia, in corrispondenza dell'occhio annerito. Lui piega le labbra in una smorfia addolorata, tende tutti i muscoli ma poi si rilassa lentamente, come una bestia selvatica che ha bisogno di essere tenuta ferma a pieni muscoli prima che si calmi. Lei gli lascia la busta sulla faccia. Rimangono in silenzio per un po'.
- Parli come se fosse stata colpa mia.
- Mi sono addormentata e risvegliata in un mondo in cui non mi sei costato la carriera nelle Forze Speciali?
- Tu ti sei giocata la carriera nelle Forze Speciali, Rebecca.
- Magari avresti potuto essere un po' più comprensivo, tutto considerato.
- Bastavi tu ad essere indulgente con te stessa. 
- Non sai di che parli.
- So che quando è uscito fuori tutto--
- Quando tu hai fatto uscire fuori tutto.
- ... Quando è uscito fuori tutto avevi un sacco di scuse per te stessa.
- Non tutti nascono con la camicia, Michael. Gli errori capitano se non hai soldi a palate per aggiustarli e un Q.I. sovraumano.
- Non è stato un errore.
La voce dell'uomo si abbassa di un tono, sembra arrivargli direttamente dal centro del torace e rimbombare tra cuore e costole prima ancora di arrivare alle labbra.
- E' stata una condotta criminale e dolosa che è andata avanti per due anni prima che accadesse l'irreparabile, e tu hai concorso agli eventi, Rebecca. Mi sono esposto per te. Saresti potuta finire di fronte a una corte marziale piuttosto che congedata senza neanche un demerito nel curriculum. 
- Cosa vuoi, Michael?
Rebecca sorride, negli occhi scuri si annida un'amarezza antica. Lui sospira a fondo. Lascia i piselli surgelati sul cuscino del divano.
- Ti ricordi quando... progettavamo di lasciare l'esercito, venire qua a Philadelphia e registrarci come vigilantes... insieme?
- Le cose sono cambiate, non credi?
- Nondimeno... c'è qualcosa che vorrei condividere con te. Se mi permetti di mostrartela. Domani mattina?
- Domani mattina lavoro.
- Puoi prenderti qualche ora libera.
- Perché vorresti lavorare con me, comunque? Dopo Osley...
- Perché mi piace pensare che tu valga di più della somma delle tue colpe. 
Rebecca sta per rispondere, ma poi gli occhi le precipitano verso il basso. Michael sospira a fondo e, con qualche difficoltà, si alza in piedi. Zoppica pesantemente fino all'uscita, senza controllare il suo orologio da quattromila dollari. Si ferma sulla porta poco dopo averla aperta. Si volta, alleggerisce il tono di voce.
- E' tanto meglio di me?
Rebecca tira su col naso e si trascina la manica sugli occhi, e solo allora è pronta ad alzare la testa e metterlo a fuoco. Gli rivolge un sorriso tutto diverso, pieno di veleno dolcissimo.
- Non mi ha ancora rovinato la vita, quindi... direi di sì.
Michael ride molto piano, annuisce. Poi si trascina oltre l'uscio, chiudendosi gentilmente la porta alle spalle.

room for peace


Rebecca King prende una bella botta, sviene (quasi muore) e riapre gli occhi in una stanza bianca, con di fronte a sé uno dei suoi fratelli deceduti: Tariq.
- Bel cliché di merda.
- Belché?
- Potevi andare a scuola invece di spacciare e finire ammazzato, stronzo.
- Potevi restartene nell'esercito invece di venire a farti ammazzare dai superumani a Philadelphia, stronza.
Non ha torto. Nelle Forze Speciali aveva più o meno un'idea del nemico. Il nemico aveva un aspetto diverso dal suo, usava armi più o meno simili e non era in grado di fracassarle la cassa toracica con un pugno distratto. 
- In culo all'amuleto della grande voodoo queen di quel cazzo di quartiere, eh?
- Lo sai che devi curarlo, Reba. Altrimenti non funziona.
- Neanche ci credevi tu a quelle cazzate.
- Non credevo in Dio, ma il voodoo? Il voodoo non lo prendi per il culo.
- Beh il voodoo non mi è stato buono a un cazzo, stasera.
Alza gli occhi al cielo, nelle orecchie sente un rombo di legno sradicato, poco dopo una mitragliata di spari. Il suo cuore inizia a battere a ritmo.
- Is your fucktoy out there?
- Shut the fuck up Tariq.
- Questa è tutta cattiva sorte per esserti scopata un bianco. Lo sai, vero?
- E' cattiva sorte per essermi fatta prendere a pugni da un carrarmato, più probabilmente.
- You don't say?
- Chi ti sei scopato, tu, per farti ammazzare?
Tariq si stringe nelle spalle e non risponde più. Rebecca non si lascia più ferire dal suo silenzio. Si siede per terra a gambe incrociate e chiude gli occhi, come Tara le insegnò a fare, finché nell'aria non risuona il rumore delle sirene e poi qualcuno che la chiama per nome. Agente King? Agente King, Rebecca: la stiamo aspettando da questa parte, agente.

strawberry fields


Ha salito gli scalini due alla volta fino al suo piano, scavalcando il senzatetto che si rifugia nell'androne del palazzo quando piove ma lasciandosi dietro qualche dollaro. Con chiavi e cellulare in mano, ha superato l'appartamento dei Johnson senza ricordarsi di attraversare il corridoio in punta di piedi (è troppo impegnata a digitare un messaggio). E' un errore fatale: Malia spalanca la porta e le rivolge un sorriso da cane bastonato che Rebecca preferirebbe non vedere. "Stasera Martin è un po' su di giri", le dice piano, e di Martin le si contano cinque dita disegnate sullo zigomo. "Non è che guardi i bambini? Così stanno un po' tranquilli". 

Rebecca accetta malvolentieri. I bambini sono tre, il più piccolo ha cinque anni (Jaquil), quella in mezzo sette (Strawberry), quello di dieci invece si chiama Gordon. Non ha mai capito la logica dietro l'onomastica di casa Johnson.

Casa sua è un buco minuscolo di due stanze più bagno, sospeso in un perenne stato di ristrutturazione di cui sta provando a occuparsi lei nei momenti liberi. Ma è pulita. E' pulita e ordinata con la mania chirurgica dei militari che fanno fatica a riadattarsi alla vita civile. Ogni cosa ha un luogo preciso, ogni spazio è ottimizzato. I libri che ha - la maggior parte dei quali usati per approfondire la preparazione richiesta per operare tra Syria, Libano e Giordania - sono nascosti nella cassapanca sotto il letto rifatto con un paio di lenzuola pulite e stirate. Le finestre splendenti sono chiuse sulle inferriate antifurto, necessarie nonostante sia al terzo piano. Anche i barattoli di stucco e vernice, quando non in uso, vengono chiusi, puliti, e disposti in ordine decrescente in un angolo. La prima cosa che i bambini fanno è andare ad aprirle il frigo, ma sembrano delusi quando lo trovano completamente vuoto.

* * *

Jaquil e Strawberry le si sono addormentati addosso di fronte alla tv, e lei evita di muoversi per non svegliarli. Gordon è accanto a lei, si è impadronito del telecomando e si annoia a fare zapping, ma non ha sonno. Ogni tanto guarda verso il muro che comunica con casa sua, preoccupandosi della calma dopo la tempesta. Perché sua madre non viene a prenderlo?
- Mio padre dice che sei scema.
- Lo dice?
- Dice che ti sente scartavetrare i muri la notte.
Rebecca ride molto piano, sopprimendo il sussulto della pancia quando Jaquil minaccia di svegliarsi con un lamento da topolino.
- Lo devo fare per togliere lo sporco e livellare lo stucco.
- Perché?
- Perché poi devo dare la vernice.
- No intendo... che ti frega? Tanto quando non paghi ti cacciano, qui ognuno si tiene le case come vengono.
Guarda verso il basso, affondando delicatamente le dita tra i ricci soffici di Strawberry e le carezza la fronte con il pollice. Ne guarda i lineamenti sovrappensiero.
- Se vivi nello schifo fa schifo anche la tua vita. Se casa tua è curata, saprai prenderti cura anche di ciò che hai attorno. Di quello che ti succede.
Gordon la osserva a labbra schiuse, appeso alle sue parole come un pesce all'amo. Quando sente lo sguardo di Rebecca tornare su di lui, però, stringe le spalle e scrolla il capo, imbronciato e dall'aria tutt'altro che convinta.
- Perché non viene a prenderci?
Rebecca sospira, guarda il muro.
- Si sarà addormentata. Prova a dormire un po' anche tu.