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as long as you stay


Maximilian Lee sostiene che sono le nostre azioni a definirci, e Rebecca King sa di essere pericolosa perché nella vita non ha fatto che prendere decisioni rischiose. Il viaggio in elicottero sembra non finire mai e lo fa tutto in apnea, per essere sicura di non disturbare il respiro di Lucas con il proprio. Ogni tanto i macchinari suonano in maniera inusuale e ogni allarme che ha in corpo inizia a farle contorcere le viscere. Le viene da vomitare ogni volta che la possibilità di perderlo tra Philadelphia e New Orleans si fa più consistente, finché nello stomaco non le rimangono solo la bile e un terrore cieco. Ha lasciato ogni cosa, ma l'ha fatto abbastanza rapidamente? Ha perso tempo? Avrebbe dovuto ascoltare Spencer Queen? Ha trovato fiducia liquida nell'ultimo sguardo che Lucas è riuscito a offrirle prima di piombare nel sonno chimico, ma se la meritava? Sta per ucciderlo?

Connor McGallaghan salverà gli Stati Uniti d'America dalla catastrofe nucleare e mesi prima le chiese, in un locale fumoso con la musica troppo alta: da quanto tempo esiste questo Lucas? Lucas esiste da prima di lei ed esisterà dopo di lei, l'ha sempre pensato: è bravo a evitare il pericolo almeno quanto lei è capace di incassarlo, è bravo a ragionare sulle cose esattamente quanto lei è brava a placcarle di peso, è bravo a prendere la mira almeno quanto lei è brava a sparare due volte. Morire per primo è una vigliaccheria che non gli si addice.

Il cuore smette di battergli per la terza volta in ventiquattro ore mentre l'elicottero sta calando sul tetto dell'ospedale. Una pletora di barellieri, medici e infermieri lo spingono correndo in rianimazione, mentre lei li segue col cuore in gola e inciampa su ogni parola che vorrebbe dire, cerca di scavalcarli, di rimanergli vicino, e finge di non sentirci quando un infermiere la spintona lontana e, pieno di frustrazione, chiede chi ha avuto la fottuta idea di spostarlo? Prova a entrare nella sala di rianimazione con lui, ci vogliono due persone per trattenerla fuori mentre lei si agita, si solleva, urla minacce e si sporge per vedere il suo petto sussultare delle cariche elettriche che gli bruciano la pelle nel tentativo di fargli ripartire il cuore. Confusa, non si rende quasi conto che la sua famiglia è lì. Che l'unico fratello che le rimane sta chiedendo agli infermieri di farli passare e che sua nonna le poggia un palmo tiepido sulla nuca, chiedendole basta. Basta, Rebecca King. Ne dichiarano il decesso alle sedici e diciotto in punto. 

Non ho mai voluto una donna quanto voglio te. E non ho mai amato una donna, quanto amo te.

I medici se ne vanno, seguiti da infermieri convinti a lasciare la famiglia da sola dai singhiozzi increduli di una donna che poco tempo fa era tra i capi della più importante agenzia federale del Paese. Si lascia scivolare all'indietro mentre geme come una bestia da caccia appena catturata in una tagliola, e se non cade a terra è solo perché Andre le preme il proprio petto contro la schiena e le circonda le spalle con le braccia. Le lacrime non le fanno vedere niente, ma va bene così: non vuole vedere. Non vuole vedere sua madre che si avvicina alla barella con la pacifica calma che nulla è mai riuscito a sottrarle, neanche la morte dei suoi stessi figli. Non vuole vederla fare un cenno ad Andre, e non vuole vedere Lucas - soprattutto Lucas -. Per cui quando Andre la trascina verso di lui, piange di lasciarla andare. Dice che non vuole, dice che non voleva, e mentre un terremoto le scuote il petto impedendole di respirare dice sono arrivata tardi, ma', volevo arrivare prima, sono arrivata tardi, perdonami, perdonami, perdonami. Si agita e si batte anche quando Andre le prende i polsi e li consegna a Tyonda King. 

Lei glieli bacia, entrambi. Su uno c'è scritto "Jamal", sull'altro "Tariq". Lutti in fila, lutti simmetrici. Le conduce i palmi sul petto nudo di quello che è stato suo marito fino a un attimo fa, e glieli tiene fermi mentre Rebecca scivola in ginocchio vicino alla barella, con il capo abbassato e neanche lo spazio per un respiro nei polmoni. Andre la costringe a rialzarsi, mentre Justine, sua nonna, le passa le dita sulle tempie sudate e tra i capelli intrecciati. Sua madre sospira a fondo. Aspetta con la pazienza dei santi, Attende che la rabbia lasci il posto a una disperazione sedimentata. Che la polvere si adagi sul terreno. Rimane dritta come una quercia, mentre sua figlia rimane piegata su se stessa, spezzata da un vento più forte di lei. 

"Rebecca", la chiama piano, con una dolcezza tiepida. "My child, my love. Sei al sicuro. Sarete al sicuro."

Alle sedici e ventidue un'ombra di colore si affaccia su zigomi immobili. Una promessa.


knock-down-drag-out



Ma respira?

I medici dicono di sì, ed è l'unica cosa che possono dirle. E' arrivata dalla palestra del Building, senza neanche passare dalle docce, e indossa la bomber jacket a fiori direttamente sopra la canottiera. La stanza in cui l'hanno portato è singola, vuota. Ha pensato di andare sul posto, al Cimitero, ma i suoi uomini ci sono già, Lucas c'è già. Non poteva neanche rimanere ferma, però. Nell'accostarsi al letto di Maximilian Lee, si sente un'intrusa. Forse dovrebbe andare, ma non vuole lasciarlo solo. Mi può sentire? ha chiesto in corridoio. Probabilmente no.

Si siede. Non vorrebbe, ma stando in piedi le sembra di sovrastarlo, e non vuole incombere come si fa sulle bare aperte dei morti, esposte. Come si fa con i cadaveri: è bianco come un cadavere, immobile come un cadavere, ma deve rifiutare di pensare a lui in quei termini. Respira. A volte respirare è abbastanza.
"Mi dispiace, Lee. La gente dovrebbe essere viva o essere morta. Queste vie di mezzo sono l'inferno."
Lo mormora. Pensava che parlare a un comatoso l'avrebbe fatta sentire stupida, ma dire quelle cose ad alta voce ha un effetto stranamente catartico. Liberatorio. E' ciò pensava quando nessuno sapeva dire con precisione se Lucas sarebbe mai tornato a muoversi: che morire sarebbe stato meglio di scoprire il proprio corpo come una prigione con sbarre fitte. Inscalfibili. Si era scoperta a pensare con risentimento al futuro da badante che l'avrebbe aspettata, al fianco di un uomo infelice e immobile che non avrebbe avuto il coraggio di lasciare. Quando ricorda quelle sensazioni, va a cercare una fede all'anulare di Maximilian. Anche lui ha qualcuno che penserà le stesse cose? O forse quel qualcuno sarà una persona migliore di quanto non sia stata lei? 
"E' questa città. Non ho mai rischiato la vita così tanto che in questa città. Nei reparti speciali dell'esercito ci sono regole, calcoli. Sai cosa accadrà o puoi prevederlo con una discreta approssimazione. Ma combattere contro queste cose-- non ci sono regole. Vale tutto e il contrario di tutto. E questo lavoro..."
Serra le labbra. E questo lavoro? Quando le Special Forces le hanno mostrato la porta, tutto ciò che desiderava era un'altra Prima Linea che la tenesse lontana da casa. Un'altra causa a cui dedicarsi anima e corpo, un altro qualcosa che le facesse alzare i livelli di adrenalina. Che le desse quel brivido.
"... Questo lavoro è la cosa che alla fine ti uccide. E' la responsabilità. La gente che si affida a te, che devi proteggere. E' una zavorra, ti bloccano i piedi. Finché non sei diventato troppo lento, troppo ragionevole, troppo impaurito all'idea di sbagliare. Diventi un bersaglio più facile in un ruolo che ti costringe ad essere esposto. E prima o poi arriva qualcuno che prende la mira e spara. E' un lavoro di merda. Mi dispiace che sia toccato anche a te."
 E' un lavoro di merda, ma ce ne sono di peggiori. Torturare la gente è peggiore. Uccidere dei ragazzini è peggiore. Il pensiero le fora il cervello come un ago, e le fa male. Per non mettersi a piangere deve passarsi una mano sugli occhi e schiarirsi la voce due volte. A spingere i cattivi sentimenti nello stomaco è diventata eccellente, ormai.
"Ma sopravvivere a volte è solo una questione di volontà. Di testa dura prima che di pelle spessa. Io lo so, l'ho fatto. Hanno dovuto rianimarmi, due volte. E ho dovuto rianimare me stessa dalla merda che avevo in testa altre due volte. E sono la figlia di nessuno. Tu sei figlio di un Dio, e non c'è Dio che sappia quanto tempo ho passato a sperare che scompariste dalla faccia della terra e smetteste di causarci problemi. Cristo, vi ho odiato. Quindi prendilo come un voto di fiducia: ti conosco poco. Ma preferirei non scomparisti dalla faccia della terra."
Soffia tra i denti un sorriso nervoso, sbuffato, privo di felicità. Si sfiora la fede che porta all'anulare, piano. Schiude le labbra per dire qualcos'altro, forse, ma il rumore di qualcuno che in fondo al corridoio chiede di Maximilian Lee la convince ad alzarsi. Con le dita, sfiora il bordo del materasso sottile, passandoci affianco. Poi, con la massima discrezione, esce dalla stanza, dirigendosi verso le scale piuttosto che agli ascensori.